Visualizzazione post con etichetta profondamentepensare. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta profondamentepensare. Mostra tutti i post

martedì 3 febbraio 2015

Perché esplodere significa esistere

Nel silenzio più irreale come solo il silenzio vero può apparire, in un non_spazio e non_tempo, d’un non_tratto accadde qualcosa per cui, miliardi di anni dopo, io adesso scrivo, qui seduto di fronte a un computer la cui materia era già in quel non_momento lì, quello che chiamano big bang, il grande scoppio [che non è un famoso fruitore di droghe che con esse si è fuso il cervello].

Da quello scoppio cominciò la materia, lo spazio, cominciò a scorrere il tempo, la luce, lo spaurimento delle stelle, delle galassie, le grosse pietre come pianeti.

Ogni cosa ebbe fragorosamente [forse senza il minimo suono] inizio con e da un’esplosione come non se ne erano mai viste prima [letteralmente] e quasi certo come non se ne vedranno più dopo.

Per esistere bisogna esplodere, venir fuori d’un fiato o di un botto e così, come pitoni mitologici, ci siamo fermati, ci siamo induriti la pelle e, poi, bang!

becco sotto guscio

bollicine contro tappo

lacrima da dotto

vapore intermittente per coperchio

fuoco d'artificio

vagito da urlo


Qui si esplode, per non implodere.

F. Alessandro Motta




sabato 3 gennaio 2015

I labirinti della mente | l'inescrivibile

Col Collettivo Flock per Labirinto 34 abbiamo ben collaborato, come già in passato e come speriamo anche in futuro.
Come Ossidi, secondo la natura degli elementi che ci compongono, possiamo definirci non un gruppo di artisti, ma un gruppo di artistoidi o, preferisco, un collettivo artistoide. Ciò perché la maggior parte di noi arriva al gesto artistico attraverso percorsi non convenzionalmente tali: la critica letteraria, l'editoria, la danza, l'ingegneria, l'archeologia, la filosofia, la manualità artigiana, il guizzo, la parola. [nota: ampliare la definizione di Ossidi "collettivo d'intenti, ve(n)detta metropolitana" in "collettivo artistoide d'intenti, ve(n)detta metropolitana"]
Nel rispetto del progetto generale ci siamo domandati come dire la nostra a modo nostro sul tema. È stato epifanico - in un certo senso - giungere alla fine di un processo di associazioni di idee in flusso di coscienza [quanti giri di parole per non dire brainstorming] con la consapevolezza di possedere una certa dimestichezza coi concetti di labirinto e di limite, soprattutto se articolati insieme a quello di mente.
Nella foto che correda questo post potrete vedere il risultato del nostro operare in direzione di rendere visivamente un concetto: ciò che non può essere scritto, l'inescrivibile, appunto. Ha sospinto l'idea principale una lettura che fa parte del nostro bagaglio culturale, ovvero Memorie di un malato di nervi di Daniel Paul Schreber, Presidente della Corte di Appello di Dresda su finire del XIX secolo. È servito solo come start per poi lasciarci procedere senza più alcun riferimento diretto ad esso [per quanto nelle Memorie ricorra il tema dell'inescrivibilità coatta, dato che molti passaggi sono stati censurati dalla famiglia Schreber prima della pubblicazione dell'opera, ma non quello dell'inescrivibilità tout court].
Vi sono percorsi del corpo che non sempre devono essere intrapresi e, una volta inforcate alcune vie, non è detto che se ne riesca a venirne fuori, nel senso di avere il vocabolario per raccontarle ad altri all'infuori di noi. In ciò non vogliamo emettere nessun giudizio nel senso che ogni cosa deve essere necessariamente verbalizzata o stereotipata su carta, non è nostro interesse né intenzione. Non si può scrivere tutto poiché non si può davvero comprendere tutto o tradurre ogni cosa da una sensazione; un averla afferrata come attimo non sempre ci trova in possesso dei vocabolari di corrispondenze tra una cosa che è qui e che deve diventare una cosa lì. Il limite tra il per me e il per il mondo a volte è segnato da una profonda voragine che non è obbligo valicare [se mai fosse possibile].
Il fil rouge funto da filo di Arianna in gran parte del Labirinto, nell'Inescrivibile [titolo per sempre provvisorio dell'installazione] è il labirinto stesso che sovrasta la testa, l'occhio, la bocca, il corpo tutto. Perché in alcuni labirinti non c'è guida, dal momento che non tutti i labirinti servono per essere risolti con l'uscirvene e che, forse, quelli della mente o altri si risolvono restandovi dentro. Perché il valore del labirinto non può essere qualcosa che non gli appartiene, cioè l'uscita, il fuori che è già un altro luogo [come se il valore del piatto fosse il tavolo].
Certe volte è necessario [né bene né male] che le macchine da scrivere restino imballate col cellophane.

Filippo Alessandro Motta

sabato 29 novembre 2014

ripartenza

Buondì a tutte e tutti! Stiamo raccogliendo #recensioni per definire il nuovo, sfavillante, numero di #Capperi!
Tema del numero: il corpo/la corporeità
Rubriche: Mald'estro (poesia), Profondamentepensare (filosofia), Specchio in frantumi ovvero frammenti riflessivi (politica), ever green (classico), di-a-da-in-con-su-per-tra-fra (libro di, a, da, ecc., es, libro per appassionati, libro da viaggio ecc.), sottosale (cinema).
Recensioni: libri degli anni 2000 che abbiano come tema quello del corpo.
Dunque, basta indugiare!  Scegliete la rubrica che più vi piace oppure prendete un libro che vi ha colpiti e che parli in qualche modo di corpo/corporeità e scrivete!
Inviate le vostre recensioni a capperi.redazione@gmail.com con oggetto "rivista capperi".

mercoledì 23 gennaio 2013

Body Art, Don De Lillo


Titolo originale: The Body Artist [!]





“So, [ ] beauty remains in the impossibilities of the body” 
[Beauty, Einsturzende Neubauten] 










improvvisamente il rumore di un corpo che si muove nello spazio, un altro da noi 
- era inevitabile, lo sai -
e in un istante di assoluta lucidità una ghiandaia azzurra è lì fuori, mi guarda, guarda me che 
sono in questa casa, tutti i gesti che servono e non servono, e io so di esistere perché c’è qualcosa lì fuori che ricambia lo sguardo. ma cosa? «L'antagonista, ossia “la realtà che ricambia lo sguardo”, non è altro, in definitiva, che la morte». [Y.Mishima, Sole e Acciaio]


[...] 

tu ora non sei più, ma nella stanza vuota in fondo al corridoio Lui, seduto sul letto
la mia voce, i tuoi gesti, la tua voce - dove sei? - la tua voce
un vocabolario ripescato da un'alluvione
il gonfiore umido di un’amnesia
una radio nella stanza accanto che trasmette un esilio sconfinato
- ed io qui con lui, in ascolto

ma il suo corpo, soprattutto, il suo corpo di uomo-bambino
il suo corpo già dato è lo spazio che lo accoglie dilatandosi
una labilità di presenza fisica che bisognerebbe dargli un nome per tenerlo qui
un nome qualsiasi solo per resistere al disfacimento

catastrofe senza narrazione, qualcosa che viene prima del linguaggio
la parola per chiaro di luna è chiaro di luna 
qualcosa che non accade, una stupefazione dispiegata dinanzi all'urlo del mondo
al non-come-se delle cose
che se ti capitasse di cercarlo lungo strade deserte, attraverso campi sterminati di mirtilli, lontano, potresti vederlo capovolto come un occhio prima che la mente intervenga
qualcosa sta succedendo, è successo, succederà

poi succede che qualcosa si rompe e comincio a rispondere al telefono con la sua voce
ora che lui non è più

[...] 

ciò che resta è il mio corpo
lo scenario della disfatta, l'estenuante campo di battaglia dove tornano i generali all'alba di ogni sconfitta, una cosa bella e problematica
dopo che ve ne siete andati, ora che il mio corpo è la pellicola, è ciò che resta nel distacco esatto, lento, inesorabile di un adesivo, l’avanzo che opprimo e che mi opprime
e questa è l’arte, forse 
tutto ciò che faccio al mio corpo è riduzione e rimozione - tutti i miei gesti meccanici -
è dare narrazione all'esistenza, qualcosa che è l’esistenza stessa, solchi profondi che scandiscono 

il prima-adesso-dopo 

eliminare i residui organici / rendersi trasparenti / tabula rasa 

e l’arte del corpo - ovvero - il corpo dell’artista
il mio. 


Riccardo Bolo

in attesa del n. 2 di Capperi! 

martedì 22 gennaio 2013

Identità Mutanti


Dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni contemporanee





«Come possiamo parlare del corpo? E innanzitutto,
bisogna parlare di un corpo o di molteplici corpi?»
Roland Barthes


Un viaggio nell’arte del corpo estremo che ha come mèta la ridefinizione del concetto di identità. Un viaggio che ha inizio con l’umano e che transita fino alle estreme sponde del postumanesimo. Da Wiener Aktionismus a Marina Abramovic, da Vito Acconci a Gina Pane, il corpo che qui viene messo a nudo, lungi dall’essere mero oggetto di rappresentazione, è esso stesso opera d’arte. Territorio dell’ossessione identitaria, campo di sperimentazione, espressione del limite costantemente superabile e superato.


Quella di Francesca Alfano Miglietti è una scrittura concitata, a tratti vertiginosa. La discesa nelle viscere rimane un’esclusiva degli artisti: l’autrice ne svela gli altari, solleva questioni. Il suo è uno schiudere finestre su vedute da grattacieli altissimi. Dalla Body Art al Post-Human, il lettore è scaraventato su scenari artistici segnati dal desiderio di riappropriazione e d'incorporazione del proprio corpo e del corpo proprio al campo dell'arte. 

Dal Korper al Leib
Dal corpo alla carne

Da un ripensamento del corpo può muovere un ripensamento dell’(e) identità. Identità sessuale, culturale, etnica. Identità che nell’era del Gestell è anche, inevitabilmente, identità tecnologica. Identità che laddove giunga ad essere percepita come trappola induce all’estremo tentativo di riconcettualizzare l’umano. 

FAM ci mostra il corpo degli artisti presentandocelo, a tratti, come una carne, ma senza esaurirne la concettualità. Proprio questa invece potrebbe essere la chiave di volta per passare dalla chiusura anestetizzante del corpo biopolitico alla contaminazione che caratterizza il corpo incarnato che siamo. Solo concependo il corpo come una carne - tessuto connettivo del mondo, nell’accezione di Merleau-Ponty - e muovendosi nello spazio aperto dalla reversibilità del sensibile carnale (quel diastema che è spazio intermedio tra senziente e sentito), l’artista può porsi nella condizione di saldare il suo debito di creatività nei confronti del mondo. Poiché la presenza del mondo è «presenza della sua carne alla mia carne». 


Da una metafisica del corpo a un’ontologia del sentire.



Una riflessione - che ad alcuni potrà sembrare un po’ ardita - ci accompagna alla fine di questo viaggio. Mettendo in crisi tutto ciò che per secoli l’ha garantita - ossia i canoni classici della bellezza intesa come unità, coerenza, armonia - l’arte del corpo si pone a denuncia e testimonianza della disarmonia e della frammentarietà che caratterizza il nostro mondo. Al punto che potremmo, accogliendo un suggerimento che sembra darci la stessa autrice, riconoscerle una precisa funzione resistenziale. Non credo di allontanarmi troppo dalle intenzioni di alcuni degli artisti in questione nell’affermare che, per il fatto di riflettere senza concessioni e di riportare alla superficie ciò che si vorrebbe dimenticare o celare, l’arte del corpo estremo riesce - per usare le parole di Adorno - «a far parlare ciò che l’ideologia nasconde» [T.W. Adorno, Note sulla letteratura].





«Lotto contro un’identità unica e unilaterale. 
Amo le identità multiple, le identità nomadi»
Orlan



Azzurra Sottosanti

in attesa del n. 2 di Capperi! 

domenica 8 agosto 2010

Origine ed epilogo della filosofia



Quando lo storico della filosofia giunge al termine, in quel breve tratto di penombra che è il contemporaneo e che gli permette di prendere fiato nell’illusione che tutto ciò che si doveva dire è stato detto, allora comincia il discorso sul già detto, la filosofia della filosofia.
Il filosofare è un lungo ragionamento complicato, una «serie dialettica» ininterrotta in cui il pensiero che vi gioca è principalmente, e per fortuna, un pensiero sintetico in cui i concetti precedenti vengono ampliati dai successivi e sopravvivono grazie ai conseguenti. Quando ciascuno di noi, per un qualsiasi motivo, interromperà la serie, qualcun altro la riprenderà, dato che è impossibile che essa cessi, quasi come quelle mitologie che affidano la sopravvivenza dell’essere al perpetuarsi di una ininterrotta favola.
Giunti alla fine della filosofia, la prima cosa che possiamo fare è guardarci attorno per osservare e constatare che il mondo del pensiero è un mondo molteplice governato dall’errore, dove anzi l’errore pian piano si mostra per quello che davvero è, ossia strumento metodologico per scovare la verità e bagaglio esperienziale imprescindibile.
Grazie all’abbaglio le filosofie si sono succedute, nell’impressione solo superficiale che le nuove fossero altra cosa rispetto alle vecchie, mentre non sono che differenti, ma sempre quelle.
L’errore è insito nel soggetto che cerca la verità, perché se non vuole cadere nello stesso sbaglio, dovrà portarlo con sé come monito, come sussurro costante. Così errore e verità stanno insieme nelle orecchie del filosofo, e forse potrebbero essere la stessa cosa osservata da diversi punti di vista. E torna il viandante, lo scopritore di verità, colui che insidia la realtà volendola denudare e costui cammina lungo un percorso che dietro le sue gambe si arrotola sulle spalle, come un sacco: perché il filosofo si eternizza nella cerca, osservando il passato e il futuro dalla sottile linea del presente, l’attimo che consente al passato d’essere stato e al futuro di non essere ancora; perché eternizzarsi significa smettere di correre dietro al tempo, fare che il tempo circoli intorno a noi e ci scivoli tra le gambe.
Alla fine della filosofia ci si accorge, allora, che non esistono le filosofie, ma un unico pensiero ininterrotto e un unico filosofo, fin da quei fisiologi ionici che dovettero negare il divino per dar vita al pensiero indagatore (e qui l’origine). E, dopo di essi Parmenide ed Eraclito e il primo, l’autore ne è certo, intitolò la propria opera non Perí Physeos, ma Aletheia, verità, perché è con la verità che il filosofo gioca a rincorrersi.
Con una scrittura tanto chiara quanto dalla perentorietà del mistico, José Ortega y Gasset ci conduce svolazzando attraverso un pensiero denso di significato e ricco di risvolti e sfaccettature, alla scoperta del vero nome del filosofo e della filosofia e del perché il termine “filosofia” sia nato come maschera per difendersi dall’odio del popolo, il tutto immerso in una teoria della conoscenza non priva di fascino.
Pure se non tutto ciò che afferma in questo scritto è da ritenersi condivisibile, l’utilità di Origine ed Epilogo della filosofia (e altri scritti) risiede nei continui rimandi, negli spunti riflessivi e nella piacevolezza di leggere un testo di filosofia (un trattato!) privo delle coltri di verbosità dietro cui tutti, prima o poi, soliamo nasconderci... (come adesso).



Alessandro Motta