mercoledì 26 maggio 2010

Metropolis


Metropolis è la città perfetta che ha abbandonato la fuliggine e l’oscurità dell’era industriale; è una città post-industriale, una cyber-città nutrita da uomini in carne e ossa, ma tramutati in cyborg per la meccanica artificiosità del loro compito.
Mai dormiente, mai caduta nell’oscurità, brilla di centinaia di luci abbaglianti, in torri d’avorio il cui accesso è riservato a pochi privilegiati, mentre i molti, la massa indefinita e informe della moltitudine, conoscono solo il tragitto che va dalle case-scatole incolonnate fino alle fabbriche e alle macchine da accudire e nutrire.
Non si può parlare di operai né di proletari, perché è come se costoro non avessero vita oltre il loro compito, è come se non percepissero neppure un salario perché non potrebbero neanche spenderlo se non per una sopravvivenza strumentale alla prosecuzione del loro lavoro ininterrotto.
Sono degli schiavi e così ce li presenta l’autrice: schiavi accostati ognuno a una macchina divinizzata, una descritta come Ganesh dalle numerose braccia, una come un Moloch, un’altra ancora come una divinità azteca; tutte pretendono il loro pasto continuo e non sono mai stanche di ricevere sacrifici umani.
Esse rappresentano la perfezione e l’atrocità della divinità: un’immortale esistenza che si nutre del fedele senza dare nulla in cambio se non una minima sopravvivenza che serve loro solo per perpetuare il loro dominio. Non hanno cervello, ma chi le serve attribuisce loro un grande potere e le rende vive.
Le macchine sono le divinità pagane di un politeismo riconducibile a un unico dio che tutto comanda e ordina: il “Cervello di Metropolis”, il “Signore della Città”, Joh Fredersen è il dio che decide quando quelle hanno bisogno di altro cibo; eppure anche egli è sottoposto al volere di altre divinità ancora più astratte: il Tempo e i Numeri. Le macchine, infatti, reclamano nutrimento ciclicamente e lui, Joh, fa tuonare la città per annunciare un nuovo turno di lavoro, il ricambio degli schiavi consumati con quelli in forze. E quando il Tempo gli lascia tempo, questi lo spende controllando numeri su numeri in serie sterminate, cercando elementi in dissonanza e ponendovi rimedio. Il suo sogno? Riuscire a sostituire i troppo fragili umani con altre macchine più efficienti.
Joh Fredersen è un dio da vecchio testamento, che richiede sacrifici, che condanna i peccatori-inefficienti a vagare per la città a livello della strada, piena di tentazioni e angoli oscuri e luoghi di perdizione di cui non si mantiene nessuna memoria. Egli è come gli edificatori della prima Torre di Babele (la sua è la seconda, la “Nuova Torre”) che progettarono un’opera che sarebbe rimasta incomprensibile a chi avrebbe dovuto edificarla materialmente al punto tale che quando gli uni gridavano “Babele!”, immaginavano gloria, altezza, divinità; gli altri udivano orrore, schiavitù, inferno. È questo il non comprendersi all’interno della Torre: il senso era lo stesso, ma non il riferimento, perché cervello e mani erano tra di loro lontani ed estranei.
In così terribile ambientazione si dipana l’avventura narrata dall’autrice; è in questo eterno inferno che l’unico figlio di Joh Fredersen, Freder, intraprende il lungo cammino verso la liberazione del popolo degli schiavi. Egli lo fa perché si innamora di Maria, figura salvifica nei cui occhi intravede l’ammonimento per la sua vita di favorito.
Egli è colui che tutti i servi di Metropolis, Nuova Babele, attendono: un salvatore; qualcuno che riesca a salvarli senza che tale processo voglia significare macchiarsi di colpa. Egli è, come proclama Maria alla massa di operai/proto-cristiani che si riuniscono segretamente nelle catacombe della città, la possibilità di diventare liberi senza macchiarsi di colpa, il cuore che metterà in contatto il cervello e le mani, il capitalista e l’operaio.
È questo un tema importante che permea l’intero romanzo della von Harbou, l’elemento che allontana radicalmente l’iniziale lettura quasi marxista della condizione del lavoratore e, soprattutto, del processo di alienazione che trasforma i lavoratori in giacimenti auriferi di lavoro, dalla soluzione che ella prospetta e predilige: una elevazione pacifica delle masse a opera di un nuovo modo di concepire la vita, incentrata su uno spirito cristiano in cui ciascuno riconosce nell’altro il proprio fratello.
Il romanzo comincia, dunque, con una efficace rappresentazione suggestiva della condizione dei lavoratori, ma l’ideologia che soggiace a questa lettura fa in modo che le condizioni disagiate, il salario insufficiente, l’alienazione e tutti i mali sociali procurati dalla degenerazione del pensiero capitalistico vengano immersi un una concezione mistica della realtà per cui l’operaio è gettato in un inferno a cui è stato condannato da un dio superiore perché il proprio figlio possa liberarlo.
Leggendo la prima parte del romanzo non riuscivo a comprendere come una scrittrice che abbracciò il nazionalsocialismo come la von Harbou potesse criticare ferocemente una società industriale allo stesso modo di Marx; la risposta arriva potente via via che si procede nella lettura e è una risposta impregnata fortemente, anche con punte d’eccesso, di tutta una simbologia carica di rimandi religiosi con un eclettismo che miscela paganesimo, cristianesimo, mito in una specie di percorso salvifico che nega qualunque forma di azione rivoluzionaria contro la repressione operata dal capitalismo e promuove un cambiamento incruento. In questo tentativo è viva la paura del bolscevismo che in quegli anni i regimi più o meno autoritari di destra inculcavano nel popolo.
Il regista viennese Fritz Lang, marito di Thea dal 1922 al 1933 (quando Lang preferisce emigrare piuttosto che sottostare al giogo del nazionalsocialismo a differenza di Thea, iscritta al partito dal 1932) sostiene che quella della moglie sia solo una fiaba. Parlando del suo film, Metropolis, la cui sceneggiatura è stata scritta da lui e dalla von Harbou contemporaneamente alla stesura del romanzo (ma i due prodotti differiscono in diversi elementi), Lang dice: «Non si può fare nessun film che abbia una valenza sociale, quando si afferma che a mediare tra il cervello e le mani debba essere il cuore».
Si consiglia la lettura di questo romanzo per tutti i motivi, positivi e negativi, esposti fino a questo momento; perché è un bel testo, scritto bene e carico di quel romanticismo mitteleuropeo che ripone nella figura dell’eroe-martire ogni speranza di cambiamento. Una lettura approfondita, inoltre, potrebbe spingerci a trovare elementi destabilizzanti per le nostre certezze ideologiche. Si lascia tuttavia al lettore il piacere della ricerca.


Filippo Alessandro Motta

martedì 25 maggio 2010

La nausea


Antoine Roquentin è un instancabile viaggiatore, lunghi ed avventurosi spostamenti tra Europa centrale, Africa del Nord ed Estremo Oriente caratterizzeranno la sua esistenza fin quasi ai suoi trent'anni. Poi l'arresto repentino a Bouville, ordinata e quieta cittadina francese. L'intento è quello di redigere una biografia sul Marchese di Rollebon, noto libertino del Settecento. Ben presto però qualcosa sfuggirà al controllo di Roquentin, un evento imprevedibile ed in rapida evoluzione stravolgerà per sempre la vita dell'ex-viaggiatore.
Il tempo delle avventure si è ormai concluso per Antoine. Peggio. Egli sente perdere anche l'orgoglio di un passato avventuroso, come se tutto si svuotasse e perdendo consistenza si svilisse sempre più, quasi non fosse mai esistito. La tappa successiva sarà la nullificazione totale: “mi sembra d'aver mentito, mi sembra che nella mia vita io non abbia avuto la minima avventura o piuttosto non so nemmeno più che cosa voglia dire questa parola”.
La nuova avventura sarà tutta interiore, un viaggio esistenziale verso il progressivo disvelamento della Cosa, di quel peso intollerabile ed inesplicabile che conduce lo scrittore verso terrifiche visioni che deformeranno via via il suo personale senso della realtà fino a renderlo rivoltante, inaccettabile, nauseabondo.
La Nausea dunque. Come un crescendo, un iniziale, improvviso turbamento che nel suo ignoto e virulento manifestarsi, terrorizza Roquentin ma scompare via rapido, senza lasciar chiare tracce di sè, se non un profondo sgomento.
L'evento si manifesta per la prima volta durante una passeggiata in spiaggia. Antoine vuole lanciare un ciottolo in mare ma qualcosa lo arresta, non riesce più a trattenerlo tra le mani che se ne ritraggono terrorizzate: ne sente d'improvviso l'esistenza. Non è più un ciottolo. Non più riconoscibile, esso semplicemente è, esiste. Si rifiuta di avere un senso, mostra una sorta di passiva resistenza.

lunedì 24 maggio 2010

La fattoria degli animali


Prendi un popolo oppresso da una tirannide odiosa. Dagli un sogno, insegnagli che esistono ideali nobili, lasciagli attraversare le dita dal vento della libertà. È così che nasce la democrazia, dopo tempi difficili e tragici.
Quel popolo, una volta ottenuta giustizia e rettitudine, sarà più felice. Si ergerà al di sopra delle macerie. Prenderà le rovine e le trasformerà in nuove case. Prenderà il passato e ne farà esperienza. Prenderà i ricordi più bui e saranno i sassi che chiuderanno il sentiero che non dovrà più essere percorso.
Saranno scritte nuove regole, che garantiranno equità per ogni individuo elevato al rango di persona. Verranno nuovi capi e saranno gli alleati della gente ordinaria e per essa realizzeranno progetti grandiosi, per il bene comune. Gli operai offriranno la forza e il sudore delle loro spalle. Le madri daranno il loro conforto e il loro abbraccio. E ci saranno i sognatori, che penseranno per tutti, quando tutti gli altri saranno troppo stanchi per farlo, e che soffieranno per sempre nelle vele della speranza.
Dai tutto questo a un popolo. E malgrado ciò, ad un certo punto, spunteranno i cinici che non crederanno alle parole dei sognatori perché vedranno solo le crepe, inevitabili in ogni cosa che si costruisce, e che loro contribuiranno a rendere più grandi e insicure. Verranno i furbi, a promettere il meglio col loro sorriso astuto senza dire che il meglio arriverà e sarà solo per pochi. Verranno i violenti, a latrare quando la gente ricorderà loro che le regole erano altre, che alla fine tutti gli uomini sono uguali e la violenza non è una soluzione. Ma senza successo. Verranno i poeti di regime che canteranno le gesta dei nuovi padroni e dei nuovi tiranni, e non importa niente che queste siano vere. Conterà soltanto che la gente, ormai ridotta a pubblico, vi creda.
Come pecore, le persone verranno condotte dai grandi comunicatori in un recinto, a imparare a memoria che ciò che fino a ieri è stato abietto da adesso è buono e auspicabile. E quando qualcuno cercherà di ricordar loro le leggi di un tempo, queste beleranno che solo in nuovo ordine è buono e le loro voci, perché tante, saranno assordanti e copriranno libertà, democrazia e diritto. E sarà il trionfo di pochi, di quelli che detengono il potere della ricchezza, di quelli che controllano l’informazione e che fanno della propria terra un posto meno libero e meno bello da vivere.
No, non sto parlando dell’Italia di oggi. Si tratta solo un romanzo, per fortuna. Basterà sostituire il pubblico al gregge, gli operai e le madri ai cavalli, i cinici agli asini, i violenti ai cani e i furbi ai maiali. E se dopo questo esercizio di fantasia, anche voi guarderete dagli uomini di oggi ai maiali e dai maiali agli uomini di oggi e vi sarà impossibile distinguere fra i due capirete perché Orwell è un genio intramontabile e perché La fattoria degli animali, al pari di ogni opera che racconta il presente attraverso suggestioni e immagini di altri tempi, è un’opera assoluta, imperitura e tragicamente attuale.


Dario Accolla

capitali, e iniziamo

scegliere dove abitare, dove abituarsi, è a volte un lusso che non tutti possono permettersi: abbiamo deciso di concedercelo

c'è chi sogna la grande capitale e chi dal suo caos vuole fuggire

per manifestarsi, collaboratrici e collaboratori saranno invitati a scrivere del loro libro capitale: il libro che ti ha cambiato la vita, che ti ha tenuto compagnia, che ti ha seguito, perseguitato, aiutato, distrutto, rafforzato e blablabla, è la capitale dove vorresti vivere

occhio dunque alle etichette e alle firme, e ci scoprirete

Sul dove, come, quando e perché

Capperi! è un progetto che ci ronza da un po' in testa,
tanto ci è ronzato che ci ha dato alla testa...
e dunque abbiamo iniziato a fantasticare, volare, progettare, pianificare senza concretizzare...
ma poi, siccome soffriamo di una qualche superstizione pagana, due nomi, quattro frasi, parole come pdf e xpress, redazione e datevi una mossa
ci hanno fatto scattare e agire
e dunque, vi promettiamo un fantastico cartaceo da sfogliare e odorare, macchiare e sgualcire
ma intanto approdiamo qui e da qui partiamo
chi volesse seguirci, ci segua
chi volesse amarci, non lo sa ancora, ma già ci ama...

capperi.redazione@gmail.com

domenica 23 maggio 2010

Manifestarsi


Cosa sono? Sono alto e basso, sono magro o dal culo prominente, sono maschio e sono femmina, sono stanco di guardarmi intorno e vedere una realtà che non mi rappresenta se non nei dettagli minimi che mi vado a scovare. Ed è nel dettaglio che ho trovato la mia via di fuga, il principio di una salvezza del tutto terrena, di una vita attiva che sia un rimbalzare continuo e progressivo con quella contemplativa.
Perché decido oggi di manifestarmi a voi? Lo faccio perché ci sono e, per esserci, ho bisogno di voi, di tutti quelli che riuscirò a convincere della necessità di venire al mondo nuovamente ed autenticamente. Perché non basta nascere per esserci, non basta esserci per essere-con.
Il mio progetto è semplice, qualcuno dirà scontato o già visto e, forse, è vero e, forse, è vero che non è vero: è né vero né falso, poiché esiste come molti altri, ma si differenzia nel metodo e nel fine.
Io sono la Sicilia, almeno parte di essa, la minima parte che consiste nell’aria che respiro, nel corpo che sono, nella terra che mi porto sotto le scarpe mentre cammino, nei legami che intreccio. Sono più che siciliano, vado oltre la Sicilia.
Non tutto ciò che vedo mi piace. Non tutto ciò che sento mi rallegra. A dire il vero non mi piace né mi rallegra granché niente, ma quello che resta di quel niente è il mio fine, il mio unico scopo; farlo emergere nella sua interezza e farlo ingrassare finché il vero niente sarà ciò che non mi piace.
Come voglio incidere sulla terra che vivo e che sono e, quindi, come voglio incidermi? Attraverso un mezzo antico come il sapere, attraverso il nostro innatismo alla parola che diventa carta, vera o virtuale, tattile o tattica, che brucia o che fonde.
È il libro. È il sapere e i saperi che si trasmettono attraverso ai libri. È la crisi che plasma nuovi pensieri che sarebbe utile che venissero trasmessi e diffusi.
Io vorrei incidere, incidermi, attraverso il suggerimento (la suggestione!) di libri che possano rompere i chiavistelli delle nostre menti, che veicolino una cultura che è forzatamente incastrata in una nicchia non perché si sia scelta questo luogo da abitare, almeno non solo, ma perché è ignorata da quella che viene detta grande distribuzione, da quei canali comunicativi talmente grossi da diventare grossolani; perché il best seller non cambia la realtà, non la intacca, veicolando un fast-think mordi e fuggi il cui unico risultato è un cervello ipertrofico e grasso di pensieri vacui.
In un mondo in continuo divenire il nostro compito, di tutti, dovrebbe essere quello di imparare la manipolazione e la mescolanza, come se fossimo alchimisti o cuochi provetti o nonne friggitrici.
Manipolazione intesa non come alterazione, ma come lavorazione manuale, confidenza tattile con informazioni e plasmarne il contenuto mischiandolo con altri contenuti, imparando a riconoscere gli accostamenti e vederne il tutto unito e le singole parti nello stesso momento.
Mescolanza nel senso di abbandono dell’inattuale ed inefficace pensiero unico, unico stile di vita, unico modo di intendere il soggetto, il predicarsi, l’essere oggetto, unico modo di scrivere un manifesto, unico gridare, unico pensare, unico affetto, senso unico, sesso unico.
Io sto cominciando a costruire un paese, un borgo, non su di una terra della sostanza delle nuvole, ma su di una terra fatta di terra, di questa terra che se abbassate gli occhi, sotto il pavimento, in fondo, è la stessa che state calpestando, almeno idealmente. Io voglio radicarmi fortemente in questa terra e da qui spiccare il volo, perché per un salto migliore è necessaria una migliore base. Tutti siete invitati nel borgo che diventerà nostro e non ad abitare nella mia casa, ma a costruire le vostre case sulla medesima terra, per abitare il luogo ed i luoghi e per trovarci vicini, dirimpettai nei pensieri.
E su questa terra dissodata, nei giardini delle case o nelle rupi a strapiombo, attendere che attecchiscano i capperi e stropicciarci gli occhi con entrambi i pugni chiusi e gridarlo: Capperi!
Capperi! è un collettivo d’intenti, un pensatoio comune, una fucina di alternative, una ve(n)detta metropolitana. È una voce dal basso che sale, linfa che si inietta a rinverdire luoghi un tempo floridi e pulsanti che l’accidia e il malcostume hanno offuscato.
Capperi! è il nostro grido, è una riscossa, quella di chi oltre ad assolati lidi estivi e città dai barocchi bagliori, ha da offrire la storia di popoli e culture, travagli millenari, violenti mutamenti e solidali convivenze.
Capperi! è consapevolezza, perché senza identità non c’è forma nell’indistinto. È un villaggio che s’accresce sul proprio domandare.
È lo spazio del fantastico e del sublunare, più che un rifugio un gran ristoro.