venerdì 25 giugno 2010

Divertimento


Si dice sempre che chi va in libreria e si mette a sfogliare libri, alla fine, quello che compra, lo sceglie perché colpito dalla quarta di copertina o dalla lettura dell’incipit.
A me non sarebbe bastato neanche leggere tutto il primo paragrafo di questo libro per convincermi a comprarlo. Ma per fortuna sono stata costretta a leggerlo, per vari motivi e poi perché, sì insomma, prima o poi devi pur leggere qualcosa di Cortázar.
Dico per fortuna perché poi, se riesci ad andare oltre le prime pagine, ti fai coinvolgere dall’evolversi delle vicende e finisci per ritrovarti improvvisamente catapultato in mezzo ai barrios di Buenos Aires, che ti affascinano talmente tanto da sperare che quella passeggiata per le strade argentine duri il più a lungo possibile.
Certo, non sempre è facile seguire il filo logico di tutto quello che succede all’interno di questo romanzo, e infatti la matassa aggrovigliata da districare è una delle immagini fondamentali del libro, ma il nodo centrale della storia rimane pur sempre affascinante. Affascinante ma enigmatico. E a tratti inquietante.
I protagonisti sembrano affrontare la vita come fosse un passatempo – e il titolo del romanzo si presta anche all’interpretazione in senso musicale del termine “divertimento”, inteso come composizione di carattere leggero –; le vicende di questo gruppo di artisti, pittori, scrittori, poeti e sensitivi si svolge quasi in una dimensione parallela, snobisticamente rinchiusa all’interno del “Vivi come puoi”, un atelier dove i protagonisti si incontrano regolarmente per ascoltare musica, dipingere, dedicarsi a diversi esercizi di stile, componendo sonetti o declamando poesie automatiche, e addentrarsi in conversazioni letterarie arricchite da citazioni colte. Ma non mancherà neanche una seduta spiritica, volta a sottolineare la dimensione oscura dell’opera, la parte surrealista, che si mescola alla realtà senza creare contrasto: reale e fantastico coesistono, differenti universi paralleli riescono a comunicare grazie a dei ponti di passaggio. La dimensione onirica e irreale è lo specchio dell’angoscia della condizione umana ed esprime con ironia l’incapacità dell’uomo di trovare un senso alla propria esistenza.
E quando si scopre che il quadro surrealista, dipinto da Renato a seguito di un sogno o di una premonizione sul futuro, rappresenta una casa che esiste davvero, i personaggi sono quasi costretti ad affrontare il mondo esterno per trovare un collegamento tra i due livelli di realtà.
Il vortice degli eventi si srotola, allora, per le vie e i quartieri di Buenos Aires, facendo immergere il lettore in un’atmosfera tutta argentina, fatta di caffè storici, mate, siesta e altre particolarità tipiche della capitale, mentre due personaggi vanno alla ricerca della casa del quadro.
Il romanzo è talmente impregnato di cultura argentina che giunge al lettore italiano come un libro dichiaratamente nato e ambientato all’estero, un libro dichiaratamente tradotto, ma un libro che arricchisce, avvicinando il lettore alla lingua e alla cultura di partenza.
Del resto era impensabile censurare o appiattire quei tratti dell’identità argentina offerti dallo scrittore. Sebbene, infatti, fosse quasi impossibile riuscire a mantenerli tutti (in quanto, per esempio, in italiano i personaggi non avrebbero mai potuto interloquire utilizzando il vos, come fanno gli argentini), bisognava cercare di non fare troppe rinunce.
Tornando, quindi, alla perlustrazione della città: il ritrovamento della casa del quadro pare indirizzare la storia verso uno scioglimento dell’intreccio e lascia sperare in una conclusione chiarificatrice, ma il finale a sorpresa tornerà a scombinare gli schemi e a rigettare il gruppo dei protagonisti in una dimensione sospesa tra realtà e sogno, con il tipico sarcasmo attraverso cui l’autore dipinge la precarietà della condizione umana.
Cortázar, infatti, si sarà sicuramente “divertito” a scrivere questo romanzo, e lo stesso abuso di citazioni letterarie e riferimenti storici, artistici e culturali non va considerato come espressione di snobismo intellettuale o mero sfoggio di cultura. Molti di questi elementi, che si inseriscono nel romanzo come tanti pezzi di un puzzle, sono, infatti, volutamente oscuri, di difficile comprensione anche per il lettore argentino che legge in lingua originale: un garbuglio di poesie automatiche improvvisate, giochi di parole, frasi in lingue straniere, termini poco usuali (come “salmodiammo” e “malmostosa”), versi, brani di canzoni, titoli di film o di opere letterarie, riferimenti a personaggi storici, a opere d’arte o a luoghi famosi accompagna il lettore, a volte confondendolo, dalla prima all’ultima pagina; e questo gioco continua anche a livello grafico, quando le frasi vengono disposte per esempio a scala. Tutto ciò perché l’autore ritiene, così facendo, di arricchire il lettore, in quanto è convinto che ogni evento e ogni esperienza di vita di un uomo influisca sulla sua visione del mondo.
E si può di certo convenire che, portata a termine la lettura, si percepisce di aver acquisito molto.


Renata Lo Iacono

lunedì 14 giugno 2010

Europeana


«Gli americani che nel 1944 sbarcarono in Normandia erano dei ragazzoni ben piantati che misuravano in media m 1,73 e se li si fosse potuti sistemare uno con le piante dei piedi contro il cranio dell’altro avrebbero misurato 38 chilometri. I tedeschi erano anche loro dei ragazzoni ben piantati ma lo erano soprattutto i tiratori senegalesi della Prima Guerra Mondiale che misuravano m 1,76 e venivano mandati in prima linea perché i tedeschi venissero presi dal panico.»

Così comincia Europeana, una storia del ventesimo secolo che apparentemente non segue nessun criterio logico nella narrazione. I fatti, gli eventi, le guerre, le scoperte, sono raccontati uno dopo l’altro senza soluzione di continuità. Come snocciolando un rosario di storie. Le virgole? Non esistono. Il criterio cronologico? A che serve!!

Tutto quello che è successo in (più o meno) cento anni viene raccontato per giustapposizione, se si parla di lingue come l’esperanto se ne parlerà considerandone l’impatto nei decenni e nei vari paesi e così per tutti gli argomenti trattati che sono veramente molti e aiutano a costruire un immaginario collettivo forse un po’ strampalato ma sicuramente ricchissimo.

Per non perdersi in questo flusso senza sosta per il respiro lungo il testo corrono dei titoletti che fanno un po’ da segnalibro: ma sono titoletti strampalati anche loro: «I soldati cantavano», «Anche questa era un’innovazione», «Mokri herokhora»...

Insomma se avete voglia di leggere la storia del novecento senza imbattervi in una noiosa sfilza di date e nozioni, se volete sorridere sulle tragedie della guerra, dello sterminio nazista e della dittatura comunista. Se volete saperne di più sull’invenzione del reggiseno e della fecondazione in vitro, questo librino è quello che fa per voi!

Sarete costretti a leggerlo tutto d’un fiato e «se vi parte il trip» avrete spesso sotto mano l’enciclopedia per andare a verificare i fatti che sono accennati in questa breve storia.

Al di là dell’ironia e dell’umorismo un po’ amaro, c’è una forte critica politica fatta ai due regimi più vicini all’autore (in senso storico e geografico) il nazismo tedesco ed il totalitarismo sovietico.

Essere cechi ha significato stare nel mezzo, subire sia la prepotenza tedesca durante gli anni del nazismo che la durezza sovietica, dunque non è per par condicio che l’autore ci parla delle schifezze commesse dai due paesi.

«E nel 1989 un politologo americano inventò la teoria della fine della storia secondo la quale la storia era giunta alla fine [...] Ma molti non conoscevano questa teoria e continuavano a fare storia come se niente fosse.»



Elisa Calabrò

in locomotiva