mercoledì 21 luglio 2010

Creatura di sabbia


Sono donna ed eterosessuale per un fattore meramente genetico o anche perché il contesto socio-culturale in cui ho vissuto fin ora mi ha influenzata? E in che misura?

Amhed nasce dall’ottavo parto di una madre sfiduciata e stanca dopo la nascita di sette figlie femmine e per l’incontenibile necessità di un padre di avere un degno erede da mostrare ai familiari e alla società tutta, un erede cui affidare le redini della famiglia e che salvi il patrimonio dall’interesse degli zii.

Amhed diventa il prediletto del padre, è riverito dalla madre e posto in un gradino superiore rispetto alle sorelle maggiori.

Amhed va a scuola, impara il corano, frequenta insieme al padre i luoghi di ritrovo destinati, nella società marocchina dell’epoca, esclusivamente agli uomini.

Amhed lavora con il padre e con grande astuzia e capacità diventa un commerciante abile e potente.

Amhed è solo.

Amhed non è un uomo.

Amhed impara a convivere con la stretta fasciatura che gli stringe il petto per impedire che si sviluppi.

Amhed non comprende bene cosa sia quel sangue che a volte gli cola lungo le cosce.

Amhed odia le donne che lo circondano e capisce di non poter rinunciare al privilegio di essere uomo in una società in cui la donna non ha alcun potere.

Ma Amhed non è un uomo.

Tahar Ben Jelloun costruisce il romanzo con un intreccio narrativo complicato che in parte dà voce direttamente ai protagonisti della storia e in parte affida il racconto a narratori estranei alla vicenda che si avvicendano e si rubano la scena in un passaggio da romanzo a racconto orale a testimonianza diretta a storia leggendaria.
Sembra quasi che il passo ultimo sia quello di cedere il testimone direttamente al lettore che può raccontare la propria versione della storia.

Ha ragione l’autore a dire che le parole sono pericolose, è difficile a volte renderle comprensibili, è difficile a volte comprenderle. In Creatura di sabbia si è scelta una trama narrativa assai complicata come base per un esercizio di scrittura ancora più complicato. Il risultato è bellissimo e accattivante.

E ti fa riflettere contemporaneamente su due piani, quello letterario: chi è il narratore, chi è il personaggio, chi è l'autore? In alcuni passi della lettura è legittimo il dubbio...

E sull’altro piano, quello sociale, culturale, di genere: chi è l’uomo, chi è la donna, quanto sono rigidi i ruoli nella nostra società, quanto è cambiato rispetto al passato, quanto è doloroso ammettere la propria identità sessuale e confrontarsi con gli altri?

Beh, non so se anche ad altr@ questo libro abbia suscitato tanti interrogativi, a me di certo ha fatto pensare, e molto...




Non è forse arroganza scrivere?
E allora questa arroganza io la pratico,
ben consapevole dei suoi rischi. Quali rischi?
Volere attraversare la vita con un’orda di parole.
E le parole sono pericolose.


Elisa Calabrò

sul genere

lunedì 19 luglio 2010

A che serve l'Ossido di ferro?





Lo usavano per le pitture rupestri.
Lo usano nei toner di stampanti e fotocopiatrici.

Lo usiamo per dare forza e risalto alla carta stampata,
o almeno,
ci proviamo...

sabato 17 luglio 2010

del genere - tentativo primo

L’imbarazzo che provo nel momento in cui mi approccio alla questione del genere, delle sue identità e delle sue differenze, credo sia da attribuire al fatto che quando si parla di genere si commette, pur non volendo, un errore.
Non è errato dire che esistano le femmine e i maschi; è poco corretto dire che la differenza di genere sia essenziale per definire una più ampia differenza tra corpi. Un maschio e una femmina differiscono solo per avere una biologia cromosomica differente? O, forse, sono i corpi a differire tra loro in base al pensiero che abbracciano?
Se gettiamo uno sguardo alle nostre spalle ci accorgiamo che la Storia ci ha inculcato degli stereotipi in merito al maschio perfetto e alla perfetta femmina: un maschio deve essere aggressivo, virile, forte, capobranco, mentre la femmina è l’angelo del focolare, è colei che accudisce i figli e fa economia domestica.
Questi elementi di comportamento sociale non sono altro che ruderi stantii di ruoli sorpassati.
Il genere femminile e quello maschile si differenziano, socialmente, per il ruolo che i rispettivi corpi sono chiamati a ricoprire all’interno della società: ogni femmina ha un’etichetta ben visibile che dice come ci si deve comportare e come la società si aspetta che la portatrice di quella etichetta si debba comportare e così vale anche per il maschio.
Ciò accade solo perché la nostra società a pensiero unico è portata naturalmente alla semplificazione: se davvero si osservasse con più attenzione la differenza nel genere più che quella di genere, se si ponesse mente alle più o meno leggere sfumature che connotano il genere singolare, allora si giungerebbe a una tale esplosione del genere per cui ogni discorso in merito risulterebbe incompleto e, quindi, sostanzialmente inutile. Anche questo è, quindi, un discorso inutile, poiché non sono in grado definitivamente di affermare cosa davvero differenzi i generi tra loro se non la multidimensionalità del corpo. Ed è forse da qui che si dovrebbe ri-partire dopo che i pensieri delle donne hanno assicurato un approdo sicuro al percorso di individuazione delle peculiarità. Tuttavia l’approdo, seppur sicuro, non è più sufficiente, in quanto le barche ormeggiate a quel molo sono diventate troppe.
Genere femminile, genere maschile, trans-genderismo, trans-sessualismo, omo e etero e bisessualità sono elementi che, combinati tra loro, danno vita ad una produzione identificativa così ampia per cui dire che un maschio è maschio e dire che una femmina è femmina significa non dire niente.
Come dovremmo rapportarci ai generi, dunque? La risposta è, ancora una volta, che non è ai generi che si deve rendere conto, ma ai corpi. Ogni corpo rappresenta un mondo a sé stante tale per cui ogni affermazione di identità diventa affermazione di singolarità, in cui l’unica comunità davvero coesa è quella dei corpi, mentre le altre si frantumano nelle varie definizioni identitarie e quindi di somiglianza o, peggio!, di identità. Seguendo questo declivio si potrebbe giungere al paradosso che due maschi sono identici come sono identiche due femmine e torneremmo a definire il prototipo del maschio e della femmina universali ai quali tutti dobbiamo conformarci senza possibilità di confronto. C’è molto altro dietro un organo sessuale o dietro una coppia di cromosomi: c’è il pensiero che oltrepassa le barriere ormonali e persino quelle storicizzate, che compie il salto delle mura concettuali che l’idea dominante (che è quella del patriarca) ha eretto tutto intorno a noi. E il pensiero, seppur prodotto da un corpo sessuato, combatte strenuamente contro i legacci con cui quel sesso è stato imbrigliato, fino al punto in cui può dirsi autentico e, finalmente, oltre le determinazioni generiche.


Alessandro Motta

giovedì 8 luglio 2010

Barcellona Opg

Io sono depresso, sono alcolista, da un mese ho finito di scontare la mia pena, però sono ancora qua, aspetto che il mio avvocato riesca a trovare un modo per farmi tornare a Favara, ma intanto devo stare qua. C’è un posto bellissimo vicino casa mia dove si mangia pesce spettacolare, non come i bastoncini che ci danno qua (tutto fritto, c’abbiamo tutti il colesterolo, ma quelli ci dicono che sono al forno, che ce li dobbiamo mangiare per forza). Quando ti capita di andare a Porto Empedocle gli devi dire che ti manda Turuzzu u’mbriacuni, tutti mi conoscono, io sono geometra, lavoravo al catasto, e se vai da questo mio amico qua, lui ti fa mangiare le cose più buone che ha, glielo dici che sei amica mia e lui ti farà un trattamento di favore, ti scrivo l’indirizzo [io non ho la penna, ho dovuto lasciare la mia borsa, compresa carta, penna e macchina fotografica nell’armadietto all’ingresso] ma la penna non ce l’ho, non ce la fanno tenere, aspe che gliela chiedo alla guardia [la guardia con la penna nel taschino passa dopo cinque secondi], agente, me la presta la penna che gli devo scrivere un indirizzo a questa amica mia? [l’agente risponde che penna non ne ha], vabbè te lo ricordi a memoria. Io tante cose mi devo per forza ricordare a memoria e me le ripasso ogni giorno così non me le scordo. Mi bravo è stu caruso che sona, ma di dov’è? Di barcellona è? Ah, di Castelmola? Io una volta sono andato ad un centro estivo a Catania, c’erano tante animatrici brave, pure gli psichiatri erano bravi là, una struttura bellissima, ci facevano fare un sacco di cose, qua le vedi queste luci colorate, le dovrebbero accendere per le feste, io mai le ho viste accese, o forse non me lo ricordo. Qua fuori c’è caldo, caldissimo, ma meglio che stare nella stanza, otto siamo, e non ti cuntu comu stamu, c’è chi non si lava, chi sta male e non si alza dal letto, tanti siamo e d’estate che vuoi, si suda e c’è puzza. Qua resti? Che vado a vedere se recupero le sigarette per stasera, io sono alcolista, e quindi fumo molto per tamponare. Qua ti trovo?

[tutti spinti al di là della linea bianca per godere di due ore esatte di diversivo]

La musica ci vuole, guarda come applaudono soddisfatti, basta poco per distrarli, ma bisogna sempre stare attenti, basta poco e la situazione può degenerare, li vedi là, li vedi guai ad uscire un pacco di sigarette che te li ritrovi tutti ‘mpicciati i supra. Quello grida sempre, dice che qua sta male, che vede i fantasmi, che gli hanno fatto la magia nera, nel suo paese là in Africa si usano queste cose, ma ora che grida niente fa, non vi preoccupate, dice w la polizia penitenziaria, ma ora aspetta che una strattonata gliela vado a dare che mi pare che si sta esaltando troppo e poi stasera...

[alle otto in punto cominciano a rimandarli nei reparti, sulle nostre autorizzazioni non c’era scritto l’orario di uscita, ovvio, perché l’orario d’uscita lo decidono loro, senza alcun tipo di proroga]

Ora me ne devo tornare nella stanza, ma voi venite di nuovo, vero? Che qua niente facciamo, ora poi che è estate solo caldo c’è qua, io mai ti avevo vista, sei nuova sei? Sei della parrocchia? Ahaaa di un’altra parrocchia tu sei? M’è piaciuto sto concertino, ma lo vedi a quello che balla Celentano?!!! Pacciu è! Ma d’altronde, all’Opg semu, chi ti spittavi? Ma st’adesivi con il fantasma chi su? Per la paura? Ah, contro la paura? E niautri oramai di chi avemu aviri scantu, puru u scantu ni passoi.

Elisa Calabrò

lunedì 5 luglio 2010

Ritratti

L’uomo è un continuo viandante lungo strada della realtà; il suo viaggio non è destinato a terminare, se non in rare eccezioni, perché la sua meta è il vero e l’unica certezza di verità di cui deve accontentarsi è un atto di fede.
Egli per natura indaga il reale, fin da quando, bambino, chiedeva insistentemente Perché? e due sono gli strumenti di indagine che possiede: i sensi e l’intelletto. Gli uni ci offrono il dipanarsi della realtà fenomenica, l’altro ci aiuta a trovare le relazioni tra le cose.

Di tanto in tanto qualche viandante devia dal suo percorso di ricerca per fermarsi in qualche borgo e chiacchierare con la gente che incontra di quello che ha potuto vedere, del vero, del verosimile, della realtà ingannevole delle cose. E racconta, a modo suo, cosa ha visto, cosa ha percepito.

Qualcuno del borgo non lo capirà, qualcun altro non lo starà neppure a sentire, alcuni intenderanno a modo loro e per quanto egli possa sforzarsi di essere chiaro e preciso e descrittivo nessuno avrà la sua identica idea.

È come se egli avesse affondato le mani nel flusso del vero e ne avesse tratto ripetutamente brandelli colanti, cercando di tinteggiare con quello che gli restava ciò che aveva visto. Il viandante, così, ritratterà la verità per i suoi uditori e loro, a loro volta, lo faranno per se stessi.

Ritrarre significa molte cose più o meno pertinenti con il nostro senso comune. Poi significa altre cose che pochi si sognerebbero di accostare a un quadro o una descrizione letteraria di qualcuno.
Nel ritratto, un dipinto da qualcuno di qualcuno, accade la sovrapposizione di almeno quattro realtà: ciò che sostanzia il reale (si direbbe "il vero"), la realtà percepita, il dipinto, l'occhio di chi osserva il dipinto. La stessa cosa accade per un testo letterario.

Il ritratto è, perciò, la versione meno veritiera della realtà così com'è, ma forse è la più veritiera della realtà così come il soggetto la costruisce: vi imprime talmente a fondo la propria azione modificatrice e interpretativa che è impossibile pensare di trovarsi di fronte a una grande mistificazione.

Del resto noi non viviamo nella realtà in-visibile, ma solo in quella che ci viene data dai sensi.

Il termine ritrarre conforta quanto detto, dato che il concetto che porta con sé è un trarre di nuovo, trattare nuovamente, tornare sulla cosa con la penna della propria sensibilità che annulla la distanza tra la cosa osservata e l'osservatore fino al punto in cui chi descrive, chi ritrae, ha già posseduto la percezione sensibile dell'oggetto e adesso ne ri-costruisce il senso. Il senso, per alcuni linguisti, è il modo in cui un concetto si offre con le parole.

Quando si giunge alla identificazione del vero, al disvelamento, alle volte chi lo fa decide di ritrattare, abiurare le sue posizioni, e costruisce una complessa ritrattazione. Avendo visto l'aletheia, la copre nuovamente, la rivela, e la rivela ritraendola (cioè, la ricopre ritrattandola). Perché la nudità della verità è una visione insopportabile. Il ritratto è, così, figlio della ritrattazione operata dall'uomo di fronte al tribunale della realtà.

L’indagatore del reale, giunto alla verità o a una sua approssimazione, si ritrae scandalizzato sia perché non riesce a sopportare la terribile dicotomia tra il vero e il reale sia perché non ha strumenti per poterci raccontare ciò che ha visto in maniera differente e maggiormente autentica di come, poi, non faccia.

Di fronte alla paura di una verità indicibile, il ritratto diviene l’esaltazione dei limiti cognitivi del soggetto, esaltazione tragica di quella tragicità di chi contempla la propria debolezza intrinseca e la accetta dignitosamente.


Alessandro Motta