lunedì 5 luglio 2010

Ritratti

L’uomo è un continuo viandante lungo strada della realtà; il suo viaggio non è destinato a terminare, se non in rare eccezioni, perché la sua meta è il vero e l’unica certezza di verità di cui deve accontentarsi è un atto di fede.
Egli per natura indaga il reale, fin da quando, bambino, chiedeva insistentemente Perché? e due sono gli strumenti di indagine che possiede: i sensi e l’intelletto. Gli uni ci offrono il dipanarsi della realtà fenomenica, l’altro ci aiuta a trovare le relazioni tra le cose.

Di tanto in tanto qualche viandante devia dal suo percorso di ricerca per fermarsi in qualche borgo e chiacchierare con la gente che incontra di quello che ha potuto vedere, del vero, del verosimile, della realtà ingannevole delle cose. E racconta, a modo suo, cosa ha visto, cosa ha percepito.

Qualcuno del borgo non lo capirà, qualcun altro non lo starà neppure a sentire, alcuni intenderanno a modo loro e per quanto egli possa sforzarsi di essere chiaro e preciso e descrittivo nessuno avrà la sua identica idea.

È come se egli avesse affondato le mani nel flusso del vero e ne avesse tratto ripetutamente brandelli colanti, cercando di tinteggiare con quello che gli restava ciò che aveva visto. Il viandante, così, ritratterà la verità per i suoi uditori e loro, a loro volta, lo faranno per se stessi.

Ritrarre significa molte cose più o meno pertinenti con il nostro senso comune. Poi significa altre cose che pochi si sognerebbero di accostare a un quadro o una descrizione letteraria di qualcuno.
Nel ritratto, un dipinto da qualcuno di qualcuno, accade la sovrapposizione di almeno quattro realtà: ciò che sostanzia il reale (si direbbe "il vero"), la realtà percepita, il dipinto, l'occhio di chi osserva il dipinto. La stessa cosa accade per un testo letterario.

Il ritratto è, perciò, la versione meno veritiera della realtà così com'è, ma forse è la più veritiera della realtà così come il soggetto la costruisce: vi imprime talmente a fondo la propria azione modificatrice e interpretativa che è impossibile pensare di trovarsi di fronte a una grande mistificazione.

Del resto noi non viviamo nella realtà in-visibile, ma solo in quella che ci viene data dai sensi.

Il termine ritrarre conforta quanto detto, dato che il concetto che porta con sé è un trarre di nuovo, trattare nuovamente, tornare sulla cosa con la penna della propria sensibilità che annulla la distanza tra la cosa osservata e l'osservatore fino al punto in cui chi descrive, chi ritrae, ha già posseduto la percezione sensibile dell'oggetto e adesso ne ri-costruisce il senso. Il senso, per alcuni linguisti, è il modo in cui un concetto si offre con le parole.

Quando si giunge alla identificazione del vero, al disvelamento, alle volte chi lo fa decide di ritrattare, abiurare le sue posizioni, e costruisce una complessa ritrattazione. Avendo visto l'aletheia, la copre nuovamente, la rivela, e la rivela ritraendola (cioè, la ricopre ritrattandola). Perché la nudità della verità è una visione insopportabile. Il ritratto è, così, figlio della ritrattazione operata dall'uomo di fronte al tribunale della realtà.

L’indagatore del reale, giunto alla verità o a una sua approssimazione, si ritrae scandalizzato sia perché non riesce a sopportare la terribile dicotomia tra il vero e il reale sia perché non ha strumenti per poterci raccontare ciò che ha visto in maniera differente e maggiormente autentica di come, poi, non faccia.

Di fronte alla paura di una verità indicibile, il ritratto diviene l’esaltazione dei limiti cognitivi del soggetto, esaltazione tragica di quella tragicità di chi contempla la propria debolezza intrinseca e la accetta dignitosamente.


Alessandro Motta

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