Metropolis è la città perfetta che ha abbandonato la fuliggine e l’oscurità dell’era industriale; è una città post-industriale, una cyber-città nutrita da uomini in carne e ossa, ma tramutati in cyborg per la meccanica artificiosità del loro compito.
Mai dormiente, mai caduta nell’oscurità, brilla di centinaia di luci abbaglianti, in torri d’avorio il cui accesso è riservato a pochi privilegiati, mentre i molti, la massa indefinita e informe della moltitudine, conoscono solo il tragitto che va dalle case-scatole incolonnate fino alle fabbriche e alle macchine da accudire e nutrire.
Non si può parlare di operai né di proletari, perché è come se costoro non avessero vita oltre il loro compito, è come se non percepissero neppure un salario perché non potrebbero neanche spenderlo se non per una sopravvivenza strumentale alla prosecuzione del loro lavoro ininterrotto.
Sono degli schiavi e così ce li presenta l’autrice: schiavi accostati ognuno a una macchina divinizzata, una descritta come Ganesh dalle numerose braccia, una come un Moloch, un’altra ancora come una divinità azteca; tutte pretendono il loro pasto continuo e non sono mai stanche di ricevere sacrifici umani.
Esse rappresentano la perfezione e l’atrocità della divinità: un’immortale esistenza che si nutre del fedele senza dare nulla in cambio se non una minima sopravvivenza che serve loro solo per perpetuare il loro dominio. Non hanno cervello, ma chi le serve attribuisce loro un grande potere e le rende vive.
Le macchine sono le divinità pagane di un politeismo riconducibile a un unico dio che tutto comanda e ordina: il “Cervello di Metropolis”, il “Signore della Città”, Joh Fredersen è il dio che decide quando quelle hanno bisogno di altro cibo; eppure anche egli è sottoposto al volere di altre divinità ancora più astratte: il Tempo e i Numeri. Le macchine, infatti, reclamano nutrimento ciclicamente e lui, Joh, fa tuonare la città per annunciare un nuovo turno di lavoro, il ricambio degli schiavi consumati con quelli in forze. E quando il Tempo gli lascia tempo, questi lo spende controllando numeri su numeri in serie sterminate, cercando elementi in dissonanza e ponendovi rimedio. Il suo sogno? Riuscire a sostituire i troppo fragili umani con altre macchine più efficienti.
Joh Fredersen è un dio da vecchio testamento, che richiede sacrifici, che condanna i peccatori-inefficienti a vagare per la città a livello della strada, piena di tentazioni e angoli oscuri e luoghi di perdizione di cui non si mantiene nessuna memoria. Egli è come gli edificatori della prima Torre di Babele (la sua è la seconda, la “Nuova Torre”) che progettarono un’opera che sarebbe rimasta incomprensibile a chi avrebbe dovuto edificarla materialmente al punto tale che quando gli uni gridavano “Babele!”, immaginavano gloria, altezza, divinità; gli altri udivano orrore, schiavitù, inferno. È questo il non comprendersi all’interno della Torre: il senso era lo stesso, ma non il riferimento, perché cervello e mani erano tra di loro lontani ed estranei.
In così terribile ambientazione si dipana l’avventura narrata dall’autrice; è in questo eterno inferno che l’unico figlio di Joh Fredersen, Freder, intraprende il lungo cammino verso la liberazione del popolo degli schiavi. Egli lo fa perché si innamora di Maria, figura salvifica nei cui occhi intravede l’ammonimento per la sua vita di favorito.
Egli è colui che tutti i servi di Metropolis, Nuova Babele, attendono: un salvatore; qualcuno che riesca a salvarli senza che tale processo voglia significare macchiarsi di colpa. Egli è, come proclama Maria alla massa di operai/proto-cristiani che si riuniscono segretamente nelle catacombe della città, la possibilità di diventare liberi senza macchiarsi di colpa, il cuore che metterà in contatto il cervello e le mani, il capitalista e l’operaio.
È questo un tema importante che permea l’intero romanzo della von Harbou, l’elemento che allontana radicalmente l’iniziale lettura quasi marxista della condizione del lavoratore e, soprattutto, del processo di alienazione che trasforma i lavoratori in giacimenti auriferi di lavoro, dalla soluzione che ella prospetta e predilige: una elevazione pacifica delle masse a opera di un nuovo modo di concepire la vita, incentrata su uno spirito cristiano in cui ciascuno riconosce nell’altro il proprio fratello.
Il romanzo comincia, dunque, con una efficace rappresentazione suggestiva della condizione dei lavoratori, ma l’ideologia che soggiace a questa lettura fa in modo che le condizioni disagiate, il salario insufficiente, l’alienazione e tutti i mali sociali procurati dalla degenerazione del pensiero capitalistico vengano immersi un una concezione mistica della realtà per cui l’operaio è gettato in un inferno a cui è stato condannato da un dio superiore perché il proprio figlio possa liberarlo.
Leggendo la prima parte del romanzo non riuscivo a comprendere come una scrittrice che abbracciò il nazionalsocialismo come la von Harbou potesse criticare ferocemente una società industriale allo stesso modo di Marx; la risposta arriva potente via via che si procede nella lettura e è una risposta impregnata fortemente, anche con punte d’eccesso, di tutta una simbologia carica di rimandi religiosi con un eclettismo che miscela paganesimo, cristianesimo, mito in una specie di percorso salvifico che nega qualunque forma di azione rivoluzionaria contro la repressione operata dal capitalismo e promuove un cambiamento incruento. In questo tentativo è viva la paura del bolscevismo che in quegli anni i regimi più o meno autoritari di destra inculcavano nel popolo.
Il regista viennese Fritz Lang, marito di Thea dal 1922 al 1933 (quando Lang preferisce emigrare piuttosto che sottostare al giogo del nazionalsocialismo a differenza di Thea, iscritta al partito dal 1932) sostiene che quella della moglie sia solo una fiaba. Parlando del suo film, Metropolis, la cui sceneggiatura è stata scritta da lui e dalla von Harbou contemporaneamente alla stesura del romanzo (ma i due prodotti differiscono in diversi elementi), Lang dice: «Non si può fare nessun film che abbia una valenza sociale, quando si afferma che a mediare tra il cervello e le mani debba essere il cuore».
Si consiglia la lettura di questo romanzo per tutti i motivi, positivi e negativi, esposti fino a questo momento; perché è un bel testo, scritto bene e carico di quel romanticismo mitteleuropeo che ripone nella figura dell’eroe-martire ogni speranza di cambiamento. Una lettura approfondita, inoltre, potrebbe spingerci a trovare elementi destabilizzanti per le nostre certezze ideologiche. Si lascia tuttavia al lettore il piacere della ricerca.
Filippo Alessandro Motta
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