Col Collettivo Flock per Labirinto 34 abbiamo ben collaborato, come già in passato e come speriamo anche in futuro.
Come Ossidi, secondo la natura degli elementi che ci compongono, possiamo definirci non un gruppo di artisti, ma un gruppo di artistoidi o, preferisco, un collettivo artistoide. Ciò perché la maggior parte di noi arriva al gesto artistico attraverso percorsi non convenzionalmente tali: la critica letteraria, l'editoria, la danza, l'ingegneria, l'archeologia, la filosofia, la manualità artigiana, il guizzo, la parola. [nota: ampliare la definizione di Ossidi "collettivo d'intenti, ve(n)detta metropolitana" in "collettivo artistoide d'intenti, ve(n)detta metropolitana"]
Nel rispetto del progetto generale ci siamo domandati come dire la nostra a modo nostro sul tema. È stato epifanico - in un certo senso - giungere alla fine di un processo di associazioni di idee in flusso di coscienza [quanti giri di parole per non dire brainstorming] con la consapevolezza di possedere una certa dimestichezza coi concetti di labirinto e di limite, soprattutto se articolati insieme a quello di mente.
Nella foto che correda questo post potrete vedere il risultato del nostro operare in direzione di rendere visivamente un concetto: ciò che non può essere scritto, l'inescrivibile, appunto. Ha sospinto l'idea principale una lettura che fa parte del nostro bagaglio culturale, ovvero Memorie di un malato di nervi di Daniel Paul Schreber, Presidente della Corte di Appello di Dresda su finire del XIX secolo. È servito solo come start per poi lasciarci procedere senza più alcun riferimento diretto ad esso [per quanto nelle Memorie ricorra il tema dell'inescrivibilità coatta, dato che molti passaggi sono stati censurati dalla famiglia Schreber prima della pubblicazione dell'opera, ma non quello dell'inescrivibilità tout court].
Vi sono percorsi del corpo che non sempre devono essere intrapresi e, una volta inforcate alcune vie, non è detto che se ne riesca a venirne fuori, nel senso di avere il vocabolario per raccontarle ad altri all'infuori di noi. In ciò non vogliamo emettere nessun giudizio nel senso che ogni cosa deve essere necessariamente verbalizzata o stereotipata su carta, non è nostro interesse né intenzione. Non si può scrivere tutto poiché non si può davvero comprendere tutto o tradurre ogni cosa da una sensazione; un averla afferrata come attimo non sempre ci trova in possesso dei vocabolari di corrispondenze tra una cosa che è qui e che deve diventare una cosa lì. Il limite tra il per me e il per il mondo a volte è segnato da una profonda voragine che non è obbligo valicare [se mai fosse possibile].
Il fil rouge funto da filo di Arianna in gran parte del Labirinto, nell'Inescrivibile [titolo per sempre provvisorio dell'installazione] è il labirinto stesso che sovrasta la testa, l'occhio, la bocca, il corpo tutto. Perché in alcuni labirinti non c'è guida, dal momento che non tutti i labirinti servono per essere risolti con l'uscirvene e che, forse, quelli della mente o altri si risolvono restandovi dentro. Perché il valore del labirinto non può essere qualcosa che non gli appartiene, cioè l'uscita, il fuori che è già un altro luogo [come se il valore del piatto fosse il tavolo].
Certe volte è necessario [né bene né male] che le macchine da scrivere restino imballate col cellophane.
Nella foto che correda questo post potrete vedere il risultato del nostro operare in direzione di rendere visivamente un concetto: ciò che non può essere scritto, l'inescrivibile, appunto. Ha sospinto l'idea principale una lettura che fa parte del nostro bagaglio culturale, ovvero Memorie di un malato di nervi di Daniel Paul Schreber, Presidente della Corte di Appello di Dresda su finire del XIX secolo. È servito solo come start per poi lasciarci procedere senza più alcun riferimento diretto ad esso [per quanto nelle Memorie ricorra il tema dell'inescrivibilità coatta, dato che molti passaggi sono stati censurati dalla famiglia Schreber prima della pubblicazione dell'opera, ma non quello dell'inescrivibilità tout court].
Vi sono percorsi del corpo che non sempre devono essere intrapresi e, una volta inforcate alcune vie, non è detto che se ne riesca a venirne fuori, nel senso di avere il vocabolario per raccontarle ad altri all'infuori di noi. In ciò non vogliamo emettere nessun giudizio nel senso che ogni cosa deve essere necessariamente verbalizzata o stereotipata su carta, non è nostro interesse né intenzione. Non si può scrivere tutto poiché non si può davvero comprendere tutto o tradurre ogni cosa da una sensazione; un averla afferrata come attimo non sempre ci trova in possesso dei vocabolari di corrispondenze tra una cosa che è qui e che deve diventare una cosa lì. Il limite tra il per me e il per il mondo a volte è segnato da una profonda voragine che non è obbligo valicare [se mai fosse possibile].
Il fil rouge funto da filo di Arianna in gran parte del Labirinto, nell'Inescrivibile [titolo per sempre provvisorio dell'installazione] è il labirinto stesso che sovrasta la testa, l'occhio, la bocca, il corpo tutto. Perché in alcuni labirinti non c'è guida, dal momento che non tutti i labirinti servono per essere risolti con l'uscirvene e che, forse, quelli della mente o altri si risolvono restandovi dentro. Perché il valore del labirinto non può essere qualcosa che non gli appartiene, cioè l'uscita, il fuori che è già un altro luogo [come se il valore del piatto fosse il tavolo].
Certe volte è necessario [né bene né male] che le macchine da scrivere restino imballate col cellophane.
Filippo Alessandro Motta
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