Uno dei telefoni dell’appartamento di sicurezza trillò. Una
tuta disindividuante rispose, poi gli allungò la cornetta. «Fred.»
Spense gli olovisori e afferrò il telefono.
«Agente Fred? Ricorda quando è stato in città la settimana
scorsa?» disse una voce. «E venne sottoposto al test GC?»
Dopo un momento di silenzio Fred risposte. «Sì.»
«Le dicemmo che sarebbe dovuto tornare.» Vi fu una breve
pausa anche da quella parte del telefono. «Abbiamo esaminato del materiale più
recente che la riguarda… Mi sono assunto io stesso la responsabilità di
sottoporla a una serie di standard completa di test percettivi e ad altri
accertamenti. Le ho fissato un appuntamento per domani alle tre del pomeriggio;
stessa stanza. In tutto gli esami richiederanno circa quattro ore. Ricorda il
numero della stanza?»
«No» disse Fred.
«Come si sente?»
«A posto» rispose stoicamente Fred.
«Qualche problema? Nel lavoro o anche al di fuori del
lavoro?»
«Ho avuto un litigio con la mia ragazza»
«Si sente un po’ confuso? Trova qualche difficoltà
nell’identificare persone oppure oggetti? Le è mai capitato di vedere qualcosa
che le apparisse invertita o rovesciata? E, adesso che le sto parlando, prova
per caso qualche disorientamento spazio-temporale o di linguaggio?»
«No» rispose tetro. «La risposta è no a tutte le domande.»
«Ci vediamo domani nella stanza 203» concluse il funzionario
psichiatrico.
«Che tipo di materiale che mi riguarda avete trovato che
possa…»
«Di questo ci occuperemo domani. Non manchi. D’accordo? E,
Fred, non si lasci prendere dallo sconforto.»
Clic.
Tratto da Un Oscuro Scrutare
Philip K. Dick, Un oscuro scrutare, Fanucci Editore, 2004. Titolo originale A Scanner Darkly,
Published in agreement with the author c/o Baror International Inc. Armonk,
1977, traduzione a cura di Gabriele Frasca.
– Marvin! – lo sgridò Trillian.
– E va bene – consentì Marvin. – Cosa vuoi che faccia? –
– Và all’entrata numero due e accompagna qui i due alieni
che si trovano di là. Tienili sotto sorveglianza, naturalmente.
Dopo la pausa di un microsecondo e dopo aver calcolato
raffinatamente la micromodulazione della voce e del suo timbro (in modo che
fosse impossibile trovarvi un appiglio per offendersi), Marvin riuscì a
comunicare tutto il disprezzo e il disgusto che provava per le cose umane.
– Tutto qui? – chiese.
– Sì – rispose secca Trillian.
– Non è che mi piacerà farlo – disse Marvin.
Zaphod si alzò di scatto dalla sedia.
– Non deve mica piacerti! – gridò. – Devi farlo e basta,
capito?
– D’accordo – disse Marvin con voce di campana rotta – lo
farò.
– Bene… – ringhiò Zaphod – fantastico… grazie…
Marvin si girò e alzò i suoi occhi rossi e triangolari,
fissando Zaphod.
– Non è che vi sto deprimendo, vero? – domandò, patetico.
– No, no, Marvin – gorgheggiò Trillian – va tutto bene,
davvero…
– Non vorrei mai al mondo deprimervi.
– No, non preoccuparti – gorgheggiò ancora Trillian – tu
comportati pure spontaneamente, e le cose continueranno ad andare benissimo.
– Davvero non siete seccati? – indagò Marvin.
– No, per niente, Marvin – zufolò Trillian. – Va tutto
benissimo, davvero… La tua depressione non è che una delle tante cose che
possono capitare nella vita.
Marvin le lampeggiò un’occhiata elettronica.
– La vita! – disse. – Non parlatemi della vita!
Girò sui tacchi con aria sconsolata e si trascinò fuori
dalla cabina. Con un ronzio soddisfatto e un clic finale, la porta richiuse
alle sue spalle.
– Credo che non potrò sopportare ancora per molto quel
robot, Zaphod – ringhiò Trillian.
Tratto da Guida galattica per autostoppisti
Douglas Adams, Guida Galattica per autostoppisti, Mondadori
‘Piccola biblioteca Oscar’, 1990, prima edizione, 1996. Titolo originale The Hitchhiker’s Guide to the
Galaxy, Completely Unexpected Production Limited, 1980, traduzione a cura di
Laura Serra
Si alzò e andò a chiudere a chiave la porta della stanza,
poi tornò al tavolino, prese dalla scatola un batuffolo di qualcosa che pareva
cotone e lo immerse per un momento nel liquido della ciotola. Le mani, osservò,
gli tremavano. Sapeva benissimo di essere più ubriaco di quanto fosse mai
stato. Ma anche così, evidentemente, non lo era ancora abbastanza.
Poi andò davanti allo specchio, e si tenne il batuffolo
umido sull’uno e sull’altro orecchio, alternativamente, finché i lobi
artificiali non caddero. Si sbottonò la camicia e con lo stesso procedimento si
tolse dal petto i capezzoli e i peli finti. I peli e i capezzoli erano
attaccati con una sorta di garza sottilissima e porosa, e vennero via insieme.
Lui prese tutte quelle cose e andò a poggiarle sul tavolino. Tornò allo
specchio e cominciò a parlare nella sua lingua, prima piano e poi a voce molto
più alta, per coprire il suono della musica jazz della televisione. Recitò una
poesia che lui stesso aveva scritto da giovane. Ma le parole non gli uscivano bene
dalle labbra. Forse era troppo ubriaco, oppure stava perdendo la facoltà di
pronunciare le sibilanti antheane. Alla fine, un po’ ansimante, prese dalla
scatola una specie di pinzetta, si rimise davanti allo specchio e staccò
accuratamente la lieve membrana di plastica colorata da ognuno degli occhi.
Ancora sforzandosi di recitare i suoi versi si guardò allo specchio sbattendo
le palpebre con le iridi che si aprivano verticalmente, come quelle del gatti.
Fissò a lungo la propria immagine e poi si mise a piangere.
Non singhiozzava, ma dagli occhi gli uscivano lacrime, lacrime del tutto uguali
a quelle degli uomini, che scivolavano giù lungo le guance incavate. Piangeva
di disperazione.
Tratto da L’Uomo che cadde sulla terra
Walter Tevis, L’Uomo che cadde sulla terra, BEAT Biblioteca
Editori Associati di Tascabili, 2012, prima edizione minimum fax, 2006. Titolo
originale The Man Who Fell to Earth, 1963, traduzione a cura di Ginetta Pignolo
Andrea Cafarella
Artwork: Gloria Di Bella
Nessun commento:
Posta un commento