giovedì 9 aprile 2015

Le tre ghinee










[Virginia Woolf, Le tre ghinee, Feltrinelli, Milano 2014]

Ne “Le tre ghinee” Virginia Woolf immagina di ricevere una lettera da un avvocato [con una piccola tenuta a Norfolk e uno studio legale a Londra] il quale chiede alla donna un finanziamento per la sua causa, ovvero la prevenzione della guerra [siamo nel 1937/38].
La lettera giace sulla scrivania dell’autrice da tre anni a causa della forte perplessità della stessa nell’affrontare il tema con un interlocutore profondamente differente da lei: un maschio. Tale differenza è, ovviamente, biologica ma, soprattutto, culturale e politica. Come porsi di fronte alla guerra?
Woolf enuncia la differenza tra maschi e femmine in merito alla pratica della guerra dato che «combattere è sempre stato un’abitudine dell’uomo, non della donna. La legge e l’esercizio hanno sviluppato quella differenza, non importa se innata o accidentale». A questo punto, una lettura superficiale mi costringerebbe ad affermare [poiché maschio] quanto segue:

Se avessi una somma di denaro da investire e dovessi rispondere per mezzo dell’investimento di tale somma alla domanda “Come secondo Lei si deve fare per prevenire la guerra?” probabilmente finirei per finanziare una guerra.

[e forse lo finirei per fare davvero]



La realtà delle cose mi appare, invece, in altro modo. Woolf, infatti, definisce il combattere un’abitudine maschile e “quella differenza” un prodotto di legge ed esercizio. Tutti e tre gli elementi messi in gioco per segnare la differenza maschile/femminile sono artificiali e non connaturati ai soggetti: legge, esercizio, abitudine. Poiché l’uomo è atto alla guerra per legge, esercizio e abitudine [il sistema patriarcale, per esemplificare] Woolf coltiva la speranza politica che attraverso l’influenza delle donne, per abitudine non inclini alla guerra, il sistema patriarcale – legge, esercizio, abitudine – potrà essere modificato. Ciò con la compartecipazione di quegli uomini, come l’avvocato che scrive all'autrice, che condividono lo stesso orrore verso l’arte disumana della guerra.
Tuttavia, come si può agire insieme per uno stesso scopo se non si è preliminarmente accertato che i soggetti in causa condividono lo stesso vocabolario di base, ad esempio. E come si può condividere lo stesso vocabolario se non si è ricevuta l’identica opportunità di accesso all’istruzione. Esiste, infatti, un baratro [di tre punti di sospensione nel testo (…)] dovuto a tale disparità tra maschi e femmine, queste ultime definite da Woolf come le figlie degli uomini colti. Gli uomini colti, che definirei più che altro gli uomini ricchi, sono i padri e i fratelli appartenenti alla ricca borghesia che hanno potuto ricevere un’istruzione universitaria in vista dell’accesso al mondo del lavoro. Le figlie degli uomini colti/ricchi sono quelle figlie e sorelle che, non ricevendo istruzione per sé, hanno contribuito alle spese per l’istruzione dei maschi delle loro famiglie e che, al massimo, hanno potuto godere di qualche lezione di tedesco.

L’istruzione è la porta di ingresso ai lavori della classe dirigente; se le donne che sono culturalmente differenti dagli uomini [per abitudine] volessero intervenire nella produzione di una cultura pacifista dovrebbero necessariamente poter accedere a tali livelli di istruzione. Altrimenti dovrebbero limitarsi a cercare di influenzare la società per mezzo della loro influenza sui maschi che fanno politica. Tuttavia, in questo caso, non sarebbero le figlie degli uomini colti a poter esercitare tale potere, ma le figlie dei nobili, dal momento che questo tipo di influenza «diviene veramente efficace soltanto se accompagnata dalla ricchezza, dal rango e da un salone per i ricevimenti». [p.35]

L’accesso all'istruzione, seppur con alcune perplessità che si inseriscono nel ragionamento [forse che il pensiero della guerra è prodotto proprio da quell'istruzione il cui accesso le donne agognano?] è, quindi, un elemento per poter spostare l’asse della società verso una politica della pace. Non bastano, però, i soli studi universitari a rendere la donna tanto influente quanto l’uomo; è necessario incentivare il lavoro qualificato per le donne, e aiutare le libere professioniste. Perché una donna colta deve essere anche libera di lasciare le mura del padre o del marito e l’indipendenza economica è un elemento essenziale per la libertà di pensiero e di espressione dal momento che finché continuerà a vivere nella dimora del padre finirà per sostenere il sistema-padre che è quello che sostenta lei stessa.
Come si può intraprendere una libera professione e restare civili, è ancora un’altra domanda che si pone Woolf. Bisogna non rinnegare «le quattro grandi maestre delle figlie degli uomini colti – la povertà, la castità, la derisione e la libertà da fittizi legami di fedeltà» [p.113]: per povertà si intende guadagnare il necessario; “castità” vuol dire rifiutarsi di vendere il proprio cervello per denaro; la funzione della derisione è quella di evitare onori e allori, ma preferire modestia e umiltà [perché la ricerca degli onori e degli allori addestra alla competizione, prodromo della guerra]; per libertà dai fittizi legami di fedeltà Woolf intende la liberazione da concetti quali Patria, Dio, Università, Famiglia, Sesso.
Seguendo questo prontuario di “non-maschilizzazione” per la donna nel mondo delle libere professioni, allora la donna potrà avere anche l’agio economico che le garantirà la libertà di esprimere il proprio modello di vita e influenzare quello della società.

La lettera/trattazione prosegue con altri esempi, altre fattispecie, analizzando molti aspetti delle strategie maschili per tenere a freno la libertà delle donne, che vanno da quelle dentro le mura domestiche a quelle, forse più feroci, pubbliche, luogo in cui lo scontro maschile/femminile deve trovare necessario sbocco. Le tirannie e i servilismi del mondo privato corrispondono a quelle del mondo pubblico, per cui è opportuno distruggere la casa privata e quella spirituale.
La condizione discriminata delle donne è frutto anche di una qualche forma di “atmosfera” pubblico-privata che aleggia sulle questioni femminili e su tutte, a mio avviso, le questioni relative alla rivendicazione di diritti di una qualsivoglia fetta di società discriminata. Contro l’”atmosfera” la lotta è molto più difficile perché si nasconde dietro la ragionevolezza del buon padre di famiglia, come la madre dell’associazione delle famiglie numerose che contesta alle coppie omosessuali di poter accedere alle graduatorie per le case popolari [“perché già ce ne sono poche e dobbiamo pensare ai nostri figli”], quel pensiero che glorifica le virtù della donna e fa di quei pregi le sbarre di una prigione di minorità. Vorrei citare un passo emblematico: «Là dentro […] troviamo in embrione l’insetto che riconosciamo sotto altri nomi in altri paesi. Là sta racchiuso allo stato embrionale l’essere che, quando è italiano o tedesco, chiamiamo Dittatore, un essere che è convinto di avere il diritto, se derivato da Dio, dalla Natura, dal sesso o dalla razza non ha la minima importanza, di imporre a altri esseri umani come devono vivere, quello che devono fare» [p. 81].

Uno dei pochi limiti del testo è quello di rimanere incentrato sulla condizione delle donne figlie e sorelle di alto borghesi [Woolf sostiene l’impossibilità di definire quelle donne “borghesi” come i loro padri e fratelli poiché esse non partecipano dei due caratteri fondamentali della borghesia ovvero il capitale e le opportunità sociali] e non viene prodotta analisi relativa né ai sistemi di produzione delle disparità né all’impari suddivisione della ricchezza tra classi. Woolf allarga il campo della rivendicazione a tutte le donne e tutti gli uomini, cercando di mostrare il carattere di universalità positiva che il modello della politica delle donne [non addestrate dai secoli al modello della guerra] potrebbe esercitare su/per tutte e tutti, ma resta comunque il senso di una mancanza.

Può “Le tre ghinee” rappresentare un testo fondamentale del femminismo separatista? A mio avviso no. Può essere, sì, un testo di politica separatista, ma non un testo che spieghi il separatismo in altro modo se non come una scelta politica [(…) quella differenza, non importa se innata o accidentale]. Esso rappresenta il ruolo enorme che i modelli culturali dominanti svolgono nella riproduzione di loro stessi indipendentemente dai generi a cui si riferiscono. Rappresenta, però, l’evidenza che i soggetti svantaggiati all'interno di quel modello posseggono l’anticorpo della marginalità che permette loro di reagire ed elaborare strategie alternative per modelli assolutamente differenti. Mostra, ancora, la possibilità che per raggiungere un medesimo fine non è necessario trovare una sintesi tra realtà differenti; è sufficiente che tali realtà continuino a perseverare nel raggiungimento di quel fine ciascuna con le proprie pratiche, pur restando in rapporto di dialogo.


Per finire, di norma non leggo mai prefazioni e introduzioni; la presenza di una Introduzione di Muraro non mi ha portato a contravvenire a tale norma.


F. Alessandro Motta

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