Questo è un libro che ogni volta si fa di sua fluorescenza
(non è casuale il colore della sua copertina, allora, no), perché ogni volta
che, consumato come è, fisicamente, vissuto dentro borsa e zaino, e letto a più
riprese, mi dà l'origine, come "senso del diritto", verrebbe da dire.
Poi, e non è a mero fin di gioco di parole, anche il "diritto al
senso", adesso che penso in reciprocità, questa frase-definizione.
Aglieco ha la concretezza di una poesia che non è dovuta, mai, che mette sempre in discussione il dono di per sé della parola, della "caduta" nel mondo, e non è il dettato teorico di cosa sia scrivere o perché, ma piuttosto l'ineluttabilità dell'atto che, sacralizzato o no, è - col rischio continuo di "smettere" - di perdersi - di non credersi più - come il durare, sempre contrastato, di un'infanzia perenne, che comprende, chiaramente, tutta l'innocenza smarrita, tutta quella innominabile e non restituibile in una forma data (non almeno "la solita"). tutto ciò che, come un segreto - e dunque, forse, non dovrebbe neanche dirsi, qui - l'arte in una qualche misura dovrebbe serbare in sé, e forse ricordare, se riesce, a chi ha memoria ancora, o uno specchietto personale ed anche un'allodola, canterino il cuore.
Aglieco ha la concretezza di una poesia che non è dovuta, mai, che mette sempre in discussione il dono di per sé della parola, della "caduta" nel mondo, e non è il dettato teorico di cosa sia scrivere o perché, ma piuttosto l'ineluttabilità dell'atto che, sacralizzato o no, è - col rischio continuo di "smettere" - di perdersi - di non credersi più - come il durare, sempre contrastato, di un'infanzia perenne, che comprende, chiaramente, tutta l'innocenza smarrita, tutta quella innominabile e non restituibile in una forma data (non almeno "la solita"). tutto ciò che, come un segreto - e dunque, forse, non dovrebbe neanche dirsi, qui - l'arte in una qualche misura dovrebbe serbare in sé, e forse ricordare, se riesce, a chi ha memoria ancora, o uno specchietto personale ed anche un'allodola, canterino il cuore.
Camminando, abbiamo parlato un po' del "ritorno"
che questo libro comprendeva, per Sebastiano - e c'è, naturale, il dialetto
suo, il suo dialetto madre, viene da dire, con ogni rischio, ogni singolare
possibilità di contrastare l'indicibile, il "solo sognato", il
vissuto così lontano da farsi macchia viva di un presente, "carne e
ossa", vivido, ecco, come da origine, fluorescente. Come un allarme,
adesso mi viene, come l'intermittenza che lo rende presente e anche
disturbatore. Non greve, seriamente leggero come uno sguardo che impara dai
propri stessi filtri, che sono i sentimenti, che è anche il passaggio naturale
del dolore e della gioia, dell'essere attenti, comunque, sempre. Di una fede,
ancora (e non àncora) nel libro. Ma con le spalle voltate, le spalle rivolte al
vivere, all'accadere. Immagino le fasi di Compitu re vivi come le tre,
difficili, naturali, fondamenta dell'esserci - dove, quando e come. Non
smarrirsi nel perché.
io guardo gli alberi
io, per la prima volta, tradisco.
mi capita di riprendere il libro, partendo dal
"come". e lo apro alle pagine "con bambini", quelle con
"maestro e bambino".
Le lacrime non vengono dagli occhi
è così misterioso il paese delle lacrime...
Commuove questo "senso della protezione",
anch'esso contrastato, prima poi, dal verbo "spezzare" -
Lascia la parola, guardaci
dicci che non cresceremo
...
Perché dobbiamo conoscere, ora, il giorno?
Ecco che i perché sono, allora, "congiunzione", non
strada, né "colpa".
Le altre due fasi, quelle che credo precedenti e
"originarie" del libro, quelle che potrei allora dire del dove e del
quando, madre (terra), padre (destino), senza categorizzare, senza entrare nel
più intimo dei dolori e dei versi, è quello che mi rende la lettura di questo
libro così, a tratti, "impaurita", quasi da rimandare, per poi
scoprire che non è che un "incontro" che scioglie ipotetici affanni
da scontro con ciò che sempre è
l'origine, la storia delle stagioni, semmai fosse possibile tracciarne una, per
tutte, e tutti, personale.
A 'm prescia, ca si isàu u
ventu, era 'n ciatu friddu nno
coddu finu a na vina
nunn'abbastàva u suli
nunn'abbastàunu l'occhi
...
i potti passàu
cu tutti l'occhi.
[In fretta perché si alzò / il vento, era un fiato freddo sul / collo fino a una vena / non bastava il sole / non bastavano gli occhi /
[In fretta perché si alzò / il vento, era un fiato freddo sul / collo fino a una vena / non bastava il sole / non bastavano gli occhi /
...
le porte trapassò / con tutti gli occhi.]
La mia impressione è che, rispetto al catanese, ora che lo rivedo, l'accento che si avvicina al siracusano - ma quello di Sebastiano è precisamente il proprio, e quello di Sortino ("verso" Siracusa) - trovo, come nei versi sopra, una presenza di a accentate che rendono davvero una sorta di tensione prima per il materno, e non spiego, ma descrivo solo una sensazione, sonora e più.
E, per non dimenticare, il quando, trovo l'andarsene come un
considerare, o spartire, il tempo, nella storia, non solo personale.
cuntàri i vistìti nna muàrra
i miricinàli
l'ùgghi e 'n pezzu ri manu
ràpiri l'acqua
vattiàri i muri
rùmpiri uci e scantu
ittàri u malu sancu
mittìrisi u vistitu jancu
irinìrisi
[contare i vestiti nell'armadio / le medicine / gli aghi e un pezzo di mano / aprire l'acqua / battezzare i muri / spezzare voce e paura / buttare il cattivo sangue / vestirsi di bianco / andarsene]
ecco, irinìrisi mi sembra una parola bianca, anzi nera,
opposta al vestito bianco che si sceglie per la partenza. E il nero è davvero
un azzerare che comprende tutto, non è quel colore che ci hanno convinti per
convenzione possa solo dire lutto, ma, teniamoci la rima, semmai tutto. Il nero
è la figura di copertina. madre con bambino nello sfondo fluorescente del
cammino.
Giampaolo De Pietro
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