giovedì 30 aprile 2015

L'olivo e l'olivastro

















È quasi difficile seguire l'effluvio d'intimità che è in questo libro di Vincenzo Consolo. Intimità tesa, traboccante dell'idea che ricordare è un salto troppo in alto per atterrare senza farsi male.

L'olivo e l'olivastro inizia con un abbandono, cioè quello di Gibellina, piccolo paesino Siciliano in cui il protagonista è nato. L'abbandono, che è poi solo un recalcitrante fuggire, un levarsi dal manto di miseria che ricopre il paese dopo il terremoto, è seguito da un viaggio in treno, che piano risale la penisola, e nel suo risalire, scorre tracciando quasi un solco nella memoria. Tale squarcio è ferita da cui inizia uno sgocciolare, un raggiare ricordi.
Allora il lettore - così come l'autore – viene incalzato da una serie di inesorabili immagini che sfilano davanti ai suoi occhi, pagina dopo pagina, a passo di processione. Ma è con raffinata acutezza che Consolo promuove ad opera letteraria tale collettivo di respiri, immagini, visioni e ricordi: e lo fa togliendo all'Odissea uno dei suoi episodi più cruciali, abbindolato l'autore stesso dall'enorme capacità del mito omerico di sedurre in ogni tempo le menti degli uomini.
Spoglio, lacero e consunto è infatti Ulisse, dopo l'arrivo da naufrago sull'isola di Scheria, terra dei Feaci. Rimasto senza compagni, quasi vinto dalle furie del mare, è l'uomo più solo del mondo e scivola come un rivolo verso il fondo della dignità umana. La mente sta per toccare le frange del sonno, quando l'eroe multiforme trova rifugio infilandosi tra due folti cespugli nati da un medesimo ceppo, uno d'ulivo e l'altro d'olivastro. Nascono da un medesimo ceppo questi due simboli del "coltivato e del selvatico, del bestiale e dell'umano", dell'attendibile e dell'incerto, quasi a voler significare una diramazione che è congenita nelle cose, come lo è nella ramaglia sotto la quale trova rifugio Ulisse. Biforcazione dunque in due vie, due ramature: quella del rigoglio e della perdizione, quella della baldanza che è nel flutto e della rovina che è nella risacca. È in tal modo che le storie raccontate dallo scrittore Messinese si pongono dinnanzi al lettore, ovvero a guisa prima d'olivo e poi d'olivastro, come in una storia d'amore che fin quando può riesce a mostrare il suo sentimento più coltivato; ma che poi diviene, sotto il patrocino del tempo, viluppo intricato di fogliame selvatico. Le storie, i luoghi e i personaggi di cui si parla sono quelli di una sicilianità bella quanto folle, e di una Sicilia ricca di sfarzi e splendori decaduti sotto le ceneri di tante città, tante Ilio distrutte dalla piaga bestiale presa dall'uomo che le abita. Così è il racconto della Milazzo nella cui piana fiorente pascolavano (secondo una tradizione che va da Timeo a Ovidio, a Plinio, ad Appiano) le vacche del Dio Sole, ma che viene soffocata, a partire dagli anni cinquanta, dalla raffineria.

"Sulla piana dove pascolavano gli armenti del Sole, dove si coltivava il gelsomino, è sorta una vasta e fitta città di silos, di tralicci, di ciminiere che perennemente vomitano fiamme e fumo, una metallica, infernale città di Dite che tutto ha sconvolto ed avvelenato: terra, cielo, mare, menti, cultura."

E come di Milazzo, si parla della Trapani "del sale del tonno e del corallo"; di Siracusa, Avola, Cefalù, Gela, Catania. Si narra l'architettura di una Caltagirone vista come metafora dell'Italia intera, nell'opposizione tra la città vecchia barocca e le mostruosità nate dalla cultura di massa che compongono invece la parte nuova, sorta nel democristiano cinquantennio di "benessere" venuto fuori dopo gli orrori del Fascismo. L'autore impreziosisce l'ossatura del libro con ricordi personali di viaggi, storie di uomini, omaggi ad artisti come Verga e Pirandello; il Caravaggio del quale si racconta la discesa nelle latomie di Siracusa e la composizione della Santa Lucia che verrà rifiutata per la sua troppa verità, come se della Sicilia si accetti di vedere soltanto la bellezza insita nei suoi mari, nei suoi santi, nelle sue contrade infinite, e non invece la sofferenza e la lacerazione provocate dall'incuria di uomini stretti nella loro mentalità chiusa, circolare come un rosario, selvaggia e selvatica come fogliame d'oleastro.

Di fronte a tutto questo sconquasso (sia esso "sacco d'orde barbarie o furia di natura") il protagonista, come detto, scappa. Ma di continuo gli sovvengono le immagini della sua terra: si può veramente lasciare la Sicilia?

Vincenzo Consolo (che pure ha vissuto a Milano dal '68) presenta in questo libro del '94 un viaggio, un canto da tragedia per una terra che si insidia prepotentemente nella testa di chi l'abbandona in un modo tale da magnificare ogni singolo ricordo. In tale opera, servendosi di una lingua antica, colorita e preziosa, l'autore descrive la sicilianità come una mentalità avvezza alla bellezza, ma folgorata ed abituata ad essa in una maniera perfino eccessiva, tale da apprezzare il sole che la illumina ma da essere pure accecati da esso e non riuscire dunque a prendersene cura.

In altre parole, quest'opera ricca di toni, spunti e sfumature testimonia che la grandezza della Sicilia sta nella follia che l'attraversa.

Alessandro Milone

Nessun commento:

Posta un commento