lunedì 14 giugno 2010

Europeana


«Gli americani che nel 1944 sbarcarono in Normandia erano dei ragazzoni ben piantati che misuravano in media m 1,73 e se li si fosse potuti sistemare uno con le piante dei piedi contro il cranio dell’altro avrebbero misurato 38 chilometri. I tedeschi erano anche loro dei ragazzoni ben piantati ma lo erano soprattutto i tiratori senegalesi della Prima Guerra Mondiale che misuravano m 1,76 e venivano mandati in prima linea perché i tedeschi venissero presi dal panico.»

Così comincia Europeana, una storia del ventesimo secolo che apparentemente non segue nessun criterio logico nella narrazione. I fatti, gli eventi, le guerre, le scoperte, sono raccontati uno dopo l’altro senza soluzione di continuità. Come snocciolando un rosario di storie. Le virgole? Non esistono. Il criterio cronologico? A che serve!!

Tutto quello che è successo in (più o meno) cento anni viene raccontato per giustapposizione, se si parla di lingue come l’esperanto se ne parlerà considerandone l’impatto nei decenni e nei vari paesi e così per tutti gli argomenti trattati che sono veramente molti e aiutano a costruire un immaginario collettivo forse un po’ strampalato ma sicuramente ricchissimo.

Per non perdersi in questo flusso senza sosta per il respiro lungo il testo corrono dei titoletti che fanno un po’ da segnalibro: ma sono titoletti strampalati anche loro: «I soldati cantavano», «Anche questa era un’innovazione», «Mokri herokhora»...

Insomma se avete voglia di leggere la storia del novecento senza imbattervi in una noiosa sfilza di date e nozioni, se volete sorridere sulle tragedie della guerra, dello sterminio nazista e della dittatura comunista. Se volete saperne di più sull’invenzione del reggiseno e della fecondazione in vitro, questo librino è quello che fa per voi!

Sarete costretti a leggerlo tutto d’un fiato e «se vi parte il trip» avrete spesso sotto mano l’enciclopedia per andare a verificare i fatti che sono accennati in questa breve storia.

Al di là dell’ironia e dell’umorismo un po’ amaro, c’è una forte critica politica fatta ai due regimi più vicini all’autore (in senso storico e geografico) il nazismo tedesco ed il totalitarismo sovietico.

Essere cechi ha significato stare nel mezzo, subire sia la prepotenza tedesca durante gli anni del nazismo che la durezza sovietica, dunque non è per par condicio che l’autore ci parla delle schifezze commesse dai due paesi.

«E nel 1989 un politologo americano inventò la teoria della fine della storia secondo la quale la storia era giunta alla fine [...] Ma molti non conoscevano questa teoria e continuavano a fare storia come se niente fosse.»



Elisa Calabrò

in locomotiva

mercoledì 26 maggio 2010

Metropolis


Metropolis è la città perfetta che ha abbandonato la fuliggine e l’oscurità dell’era industriale; è una città post-industriale, una cyber-città nutrita da uomini in carne e ossa, ma tramutati in cyborg per la meccanica artificiosità del loro compito.
Mai dormiente, mai caduta nell’oscurità, brilla di centinaia di luci abbaglianti, in torri d’avorio il cui accesso è riservato a pochi privilegiati, mentre i molti, la massa indefinita e informe della moltitudine, conoscono solo il tragitto che va dalle case-scatole incolonnate fino alle fabbriche e alle macchine da accudire e nutrire.
Non si può parlare di operai né di proletari, perché è come se costoro non avessero vita oltre il loro compito, è come se non percepissero neppure un salario perché non potrebbero neanche spenderlo se non per una sopravvivenza strumentale alla prosecuzione del loro lavoro ininterrotto.
Sono degli schiavi e così ce li presenta l’autrice: schiavi accostati ognuno a una macchina divinizzata, una descritta come Ganesh dalle numerose braccia, una come un Moloch, un’altra ancora come una divinità azteca; tutte pretendono il loro pasto continuo e non sono mai stanche di ricevere sacrifici umani.
Esse rappresentano la perfezione e l’atrocità della divinità: un’immortale esistenza che si nutre del fedele senza dare nulla in cambio se non una minima sopravvivenza che serve loro solo per perpetuare il loro dominio. Non hanno cervello, ma chi le serve attribuisce loro un grande potere e le rende vive.
Le macchine sono le divinità pagane di un politeismo riconducibile a un unico dio che tutto comanda e ordina: il “Cervello di Metropolis”, il “Signore della Città”, Joh Fredersen è il dio che decide quando quelle hanno bisogno di altro cibo; eppure anche egli è sottoposto al volere di altre divinità ancora più astratte: il Tempo e i Numeri. Le macchine, infatti, reclamano nutrimento ciclicamente e lui, Joh, fa tuonare la città per annunciare un nuovo turno di lavoro, il ricambio degli schiavi consumati con quelli in forze. E quando il Tempo gli lascia tempo, questi lo spende controllando numeri su numeri in serie sterminate, cercando elementi in dissonanza e ponendovi rimedio. Il suo sogno? Riuscire a sostituire i troppo fragili umani con altre macchine più efficienti.
Joh Fredersen è un dio da vecchio testamento, che richiede sacrifici, che condanna i peccatori-inefficienti a vagare per la città a livello della strada, piena di tentazioni e angoli oscuri e luoghi di perdizione di cui non si mantiene nessuna memoria. Egli è come gli edificatori della prima Torre di Babele (la sua è la seconda, la “Nuova Torre”) che progettarono un’opera che sarebbe rimasta incomprensibile a chi avrebbe dovuto edificarla materialmente al punto tale che quando gli uni gridavano “Babele!”, immaginavano gloria, altezza, divinità; gli altri udivano orrore, schiavitù, inferno. È questo il non comprendersi all’interno della Torre: il senso era lo stesso, ma non il riferimento, perché cervello e mani erano tra di loro lontani ed estranei.
In così terribile ambientazione si dipana l’avventura narrata dall’autrice; è in questo eterno inferno che l’unico figlio di Joh Fredersen, Freder, intraprende il lungo cammino verso la liberazione del popolo degli schiavi. Egli lo fa perché si innamora di Maria, figura salvifica nei cui occhi intravede l’ammonimento per la sua vita di favorito.
Egli è colui che tutti i servi di Metropolis, Nuova Babele, attendono: un salvatore; qualcuno che riesca a salvarli senza che tale processo voglia significare macchiarsi di colpa. Egli è, come proclama Maria alla massa di operai/proto-cristiani che si riuniscono segretamente nelle catacombe della città, la possibilità di diventare liberi senza macchiarsi di colpa, il cuore che metterà in contatto il cervello e le mani, il capitalista e l’operaio.
È questo un tema importante che permea l’intero romanzo della von Harbou, l’elemento che allontana radicalmente l’iniziale lettura quasi marxista della condizione del lavoratore e, soprattutto, del processo di alienazione che trasforma i lavoratori in giacimenti auriferi di lavoro, dalla soluzione che ella prospetta e predilige: una elevazione pacifica delle masse a opera di un nuovo modo di concepire la vita, incentrata su uno spirito cristiano in cui ciascuno riconosce nell’altro il proprio fratello.
Il romanzo comincia, dunque, con una efficace rappresentazione suggestiva della condizione dei lavoratori, ma l’ideologia che soggiace a questa lettura fa in modo che le condizioni disagiate, il salario insufficiente, l’alienazione e tutti i mali sociali procurati dalla degenerazione del pensiero capitalistico vengano immersi un una concezione mistica della realtà per cui l’operaio è gettato in un inferno a cui è stato condannato da un dio superiore perché il proprio figlio possa liberarlo.
Leggendo la prima parte del romanzo non riuscivo a comprendere come una scrittrice che abbracciò il nazionalsocialismo come la von Harbou potesse criticare ferocemente una società industriale allo stesso modo di Marx; la risposta arriva potente via via che si procede nella lettura e è una risposta impregnata fortemente, anche con punte d’eccesso, di tutta una simbologia carica di rimandi religiosi con un eclettismo che miscela paganesimo, cristianesimo, mito in una specie di percorso salvifico che nega qualunque forma di azione rivoluzionaria contro la repressione operata dal capitalismo e promuove un cambiamento incruento. In questo tentativo è viva la paura del bolscevismo che in quegli anni i regimi più o meno autoritari di destra inculcavano nel popolo.
Il regista viennese Fritz Lang, marito di Thea dal 1922 al 1933 (quando Lang preferisce emigrare piuttosto che sottostare al giogo del nazionalsocialismo a differenza di Thea, iscritta al partito dal 1932) sostiene che quella della moglie sia solo una fiaba. Parlando del suo film, Metropolis, la cui sceneggiatura è stata scritta da lui e dalla von Harbou contemporaneamente alla stesura del romanzo (ma i due prodotti differiscono in diversi elementi), Lang dice: «Non si può fare nessun film che abbia una valenza sociale, quando si afferma che a mediare tra il cervello e le mani debba essere il cuore».
Si consiglia la lettura di questo romanzo per tutti i motivi, positivi e negativi, esposti fino a questo momento; perché è un bel testo, scritto bene e carico di quel romanticismo mitteleuropeo che ripone nella figura dell’eroe-martire ogni speranza di cambiamento. Una lettura approfondita, inoltre, potrebbe spingerci a trovare elementi destabilizzanti per le nostre certezze ideologiche. Si lascia tuttavia al lettore il piacere della ricerca.


Filippo Alessandro Motta

martedì 25 maggio 2010

La nausea


Antoine Roquentin è un instancabile viaggiatore, lunghi ed avventurosi spostamenti tra Europa centrale, Africa del Nord ed Estremo Oriente caratterizzeranno la sua esistenza fin quasi ai suoi trent'anni. Poi l'arresto repentino a Bouville, ordinata e quieta cittadina francese. L'intento è quello di redigere una biografia sul Marchese di Rollebon, noto libertino del Settecento. Ben presto però qualcosa sfuggirà al controllo di Roquentin, un evento imprevedibile ed in rapida evoluzione stravolgerà per sempre la vita dell'ex-viaggiatore.
Il tempo delle avventure si è ormai concluso per Antoine. Peggio. Egli sente perdere anche l'orgoglio di un passato avventuroso, come se tutto si svuotasse e perdendo consistenza si svilisse sempre più, quasi non fosse mai esistito. La tappa successiva sarà la nullificazione totale: “mi sembra d'aver mentito, mi sembra che nella mia vita io non abbia avuto la minima avventura o piuttosto non so nemmeno più che cosa voglia dire questa parola”.
La nuova avventura sarà tutta interiore, un viaggio esistenziale verso il progressivo disvelamento della Cosa, di quel peso intollerabile ed inesplicabile che conduce lo scrittore verso terrifiche visioni che deformeranno via via il suo personale senso della realtà fino a renderlo rivoltante, inaccettabile, nauseabondo.
La Nausea dunque. Come un crescendo, un iniziale, improvviso turbamento che nel suo ignoto e virulento manifestarsi, terrorizza Roquentin ma scompare via rapido, senza lasciar chiare tracce di sè, se non un profondo sgomento.
L'evento si manifesta per la prima volta durante una passeggiata in spiaggia. Antoine vuole lanciare un ciottolo in mare ma qualcosa lo arresta, non riesce più a trattenerlo tra le mani che se ne ritraggono terrorizzate: ne sente d'improvviso l'esistenza. Non è più un ciottolo. Non più riconoscibile, esso semplicemente è, esiste. Si rifiuta di avere un senso, mostra una sorta di passiva resistenza.

lunedì 24 maggio 2010

La fattoria degli animali


Prendi un popolo oppresso da una tirannide odiosa. Dagli un sogno, insegnagli che esistono ideali nobili, lasciagli attraversare le dita dal vento della libertà. È così che nasce la democrazia, dopo tempi difficili e tragici.
Quel popolo, una volta ottenuta giustizia e rettitudine, sarà più felice. Si ergerà al di sopra delle macerie. Prenderà le rovine e le trasformerà in nuove case. Prenderà il passato e ne farà esperienza. Prenderà i ricordi più bui e saranno i sassi che chiuderanno il sentiero che non dovrà più essere percorso.
Saranno scritte nuove regole, che garantiranno equità per ogni individuo elevato al rango di persona. Verranno nuovi capi e saranno gli alleati della gente ordinaria e per essa realizzeranno progetti grandiosi, per il bene comune. Gli operai offriranno la forza e il sudore delle loro spalle. Le madri daranno il loro conforto e il loro abbraccio. E ci saranno i sognatori, che penseranno per tutti, quando tutti gli altri saranno troppo stanchi per farlo, e che soffieranno per sempre nelle vele della speranza.
Dai tutto questo a un popolo. E malgrado ciò, ad un certo punto, spunteranno i cinici che non crederanno alle parole dei sognatori perché vedranno solo le crepe, inevitabili in ogni cosa che si costruisce, e che loro contribuiranno a rendere più grandi e insicure. Verranno i furbi, a promettere il meglio col loro sorriso astuto senza dire che il meglio arriverà e sarà solo per pochi. Verranno i violenti, a latrare quando la gente ricorderà loro che le regole erano altre, che alla fine tutti gli uomini sono uguali e la violenza non è una soluzione. Ma senza successo. Verranno i poeti di regime che canteranno le gesta dei nuovi padroni e dei nuovi tiranni, e non importa niente che queste siano vere. Conterà soltanto che la gente, ormai ridotta a pubblico, vi creda.
Come pecore, le persone verranno condotte dai grandi comunicatori in un recinto, a imparare a memoria che ciò che fino a ieri è stato abietto da adesso è buono e auspicabile. E quando qualcuno cercherà di ricordar loro le leggi di un tempo, queste beleranno che solo in nuovo ordine è buono e le loro voci, perché tante, saranno assordanti e copriranno libertà, democrazia e diritto. E sarà il trionfo di pochi, di quelli che detengono il potere della ricchezza, di quelli che controllano l’informazione e che fanno della propria terra un posto meno libero e meno bello da vivere.
No, non sto parlando dell’Italia di oggi. Si tratta solo un romanzo, per fortuna. Basterà sostituire il pubblico al gregge, gli operai e le madri ai cavalli, i cinici agli asini, i violenti ai cani e i furbi ai maiali. E se dopo questo esercizio di fantasia, anche voi guarderete dagli uomini di oggi ai maiali e dai maiali agli uomini di oggi e vi sarà impossibile distinguere fra i due capirete perché Orwell è un genio intramontabile e perché La fattoria degli animali, al pari di ogni opera che racconta il presente attraverso suggestioni e immagini di altri tempi, è un’opera assoluta, imperitura e tragicamente attuale.


Dario Accolla