sabato 17 luglio 2010
del genere - tentativo primo
Non è errato dire che esistano le femmine e i maschi; è poco corretto dire che la differenza di genere sia essenziale per definire una più ampia differenza tra corpi. Un maschio e una femmina differiscono solo per avere una biologia cromosomica differente? O, forse, sono i corpi a differire tra loro in base al pensiero che abbracciano?
Se gettiamo uno sguardo alle nostre spalle ci accorgiamo che la Storia ci ha inculcato degli stereotipi in merito al maschio perfetto e alla perfetta femmina: un maschio deve essere aggressivo, virile, forte, capobranco, mentre la femmina è l’angelo del focolare, è colei che accudisce i figli e fa economia domestica.
Questi elementi di comportamento sociale non sono altro che ruderi stantii di ruoli sorpassati.
Il genere femminile e quello maschile si differenziano, socialmente, per il ruolo che i rispettivi corpi sono chiamati a ricoprire all’interno della società: ogni femmina ha un’etichetta ben visibile che dice come ci si deve comportare e come la società si aspetta che la portatrice di quella etichetta si debba comportare e così vale anche per il maschio.
Ciò accade solo perché la nostra società a pensiero unico è portata naturalmente alla semplificazione: se davvero si osservasse con più attenzione la differenza nel genere più che quella di genere, se si ponesse mente alle più o meno leggere sfumature che connotano il genere singolare, allora si giungerebbe a una tale esplosione del genere per cui ogni discorso in merito risulterebbe incompleto e, quindi, sostanzialmente inutile. Anche questo è, quindi, un discorso inutile, poiché non sono in grado definitivamente di affermare cosa davvero differenzi i generi tra loro se non la multidimensionalità del corpo. Ed è forse da qui che si dovrebbe ri-partire dopo che i pensieri delle donne hanno assicurato un approdo sicuro al percorso di individuazione delle peculiarità. Tuttavia l’approdo, seppur sicuro, non è più sufficiente, in quanto le barche ormeggiate a quel molo sono diventate troppe.
Genere femminile, genere maschile, trans-genderismo, trans-sessualismo, omo e etero e bisessualità sono elementi che, combinati tra loro, danno vita ad una produzione identificativa così ampia per cui dire che un maschio è maschio e dire che una femmina è femmina significa non dire niente.
Come dovremmo rapportarci ai generi, dunque? La risposta è, ancora una volta, che non è ai generi che si deve rendere conto, ma ai corpi. Ogni corpo rappresenta un mondo a sé stante tale per cui ogni affermazione di identità diventa affermazione di singolarità, in cui l’unica comunità davvero coesa è quella dei corpi, mentre le altre si frantumano nelle varie definizioni identitarie e quindi di somiglianza o, peggio!, di identità. Seguendo questo declivio si potrebbe giungere al paradosso che due maschi sono identici come sono identiche due femmine e torneremmo a definire il prototipo del maschio e della femmina universali ai quali tutti dobbiamo conformarci senza possibilità di confronto. C’è molto altro dietro un organo sessuale o dietro una coppia di cromosomi: c’è il pensiero che oltrepassa le barriere ormonali e persino quelle storicizzate, che compie il salto delle mura concettuali che l’idea dominante (che è quella del patriarca) ha eretto tutto intorno a noi. E il pensiero, seppur prodotto da un corpo sessuato, combatte strenuamente contro i legacci con cui quel sesso è stato imbrigliato, fino al punto in cui può dirsi autentico e, finalmente, oltre le determinazioni generiche.
Alessandro Motta
giovedì 8 luglio 2010
Barcellona Opg
[tutti spinti al di là della linea bianca per godere di due ore esatte di diversivo]
La musica ci vuole, guarda come applaudono soddisfatti, basta poco per distrarli, ma bisogna sempre stare attenti, basta poco e la situazione può degenerare, li vedi là, li vedi guai ad uscire un pacco di sigarette che te li ritrovi tutti ‘mpicciati i supra. Quello grida sempre, dice che qua sta male, che vede i fantasmi, che gli hanno fatto la magia nera, nel suo paese là in Africa si usano queste cose, ma ora che grida niente fa, non vi preoccupate, dice w la polizia penitenziaria, ma ora aspetta che una strattonata gliela vado a dare che mi pare che si sta esaltando troppo e poi stasera...
[alle otto in punto cominciano a rimandarli nei reparti, sulle nostre autorizzazioni non c’era scritto l’orario di uscita, ovvio, perché l’orario d’uscita lo decidono loro, senza alcun tipo di proroga]
Ora me ne devo tornare nella stanza, ma voi venite di nuovo, vero? Che qua niente facciamo, ora poi che è estate solo caldo c’è qua, io mai ti avevo vista, sei nuova sei? Sei della parrocchia? Ahaaa di un’altra parrocchia tu sei? M’è piaciuto sto concertino, ma lo vedi a quello che balla Celentano?!!! Pacciu è! Ma d’altronde, all’Opg semu, chi ti spittavi? Ma st’adesivi con il fantasma chi su? Per la paura? Ah, contro la paura? E niautri oramai di chi avemu aviri scantu, puru u scantu ni passoi.
Elisa Calabrò
lunedì 5 luglio 2010
Ritratti
Egli per natura indaga il reale, fin da quando, bambino, chiedeva insistentemente Perché? e due sono gli strumenti di indagine che possiede: i sensi e l’intelletto. Gli uni ci offrono il dipanarsi della realtà fenomenica, l’altro ci aiuta a trovare le relazioni tra le cose.
Di tanto in tanto qualche viandante devia dal suo percorso di ricerca per fermarsi in qualche borgo e chiacchierare con la gente che incontra di quello che ha potuto vedere, del vero, del verosimile, della realtà ingannevole delle cose. E racconta, a modo suo, cosa ha visto, cosa ha percepito.
Qualcuno del borgo non lo capirà, qualcun altro non lo starà neppure a sentire, alcuni intenderanno a modo loro e per quanto egli possa sforzarsi di essere chiaro e preciso e descrittivo nessuno avrà la sua identica idea.
È come se egli avesse affondato le mani nel flusso del vero e ne avesse tratto ripetutamente brandelli colanti, cercando di tinteggiare con quello che gli restava ciò che aveva visto. Il viandante, così, ritratterà la verità per i suoi uditori e loro, a loro volta, lo faranno per se stessi.
Ritrarre significa molte cose più o meno pertinenti con il nostro senso comune. Poi significa altre cose che pochi si sognerebbero di accostare a un quadro o una descrizione letteraria di qualcuno.
Nel ritratto, un dipinto da qualcuno di qualcuno, accade la sovrapposizione di almeno quattro realtà: ciò che sostanzia il reale (si direbbe "il vero"), la realtà percepita, il dipinto, l'occhio di chi osserva il dipinto. La stessa cosa accade per un testo letterario.
Il ritratto è, perciò, la versione meno veritiera della realtà così com'è, ma forse è la più veritiera della realtà così come il soggetto la costruisce: vi imprime talmente a fondo la propria azione modificatrice e interpretativa che è impossibile pensare di trovarsi di fronte a una grande mistificazione.
Del resto noi non viviamo nella realtà in-visibile, ma solo in quella che ci viene data dai sensi.
Il termine ritrarre conforta quanto detto, dato che il concetto che porta con sé è un trarre di nuovo, trattare nuovamente, tornare sulla cosa con la penna della propria sensibilità che annulla la distanza tra la cosa osservata e l'osservatore fino al punto in cui chi descrive, chi ritrae, ha già posseduto la percezione sensibile dell'oggetto e adesso ne ri-costruisce il senso. Il senso, per alcuni linguisti, è il modo in cui un concetto si offre con le parole.
Quando si giunge alla identificazione del vero, al disvelamento, alle volte chi lo fa decide di ritrattare, abiurare le sue posizioni, e costruisce una complessa ritrattazione. Avendo visto l'aletheia, la copre nuovamente, la rivela, e la rivela ritraendola (cioè, la ricopre ritrattandola). Perché la nudità della verità è una visione insopportabile. Il ritratto è, così, figlio della ritrattazione operata dall'uomo di fronte al tribunale della realtà.
L’indagatore del reale, giunto alla verità o a una sua approssimazione, si ritrae scandalizzato sia perché non riesce a sopportare la terribile dicotomia tra il vero e il reale sia perché non ha strumenti per poterci raccontare ciò che ha visto in maniera differente e maggiormente autentica di come, poi, non faccia.
Di fronte alla paura di una verità indicibile, il ritratto diviene l’esaltazione dei limiti cognitivi del soggetto, esaltazione tragica di quella tragicità di chi contempla la propria debolezza intrinseca e la accetta dignitosamente.
Alessandro Motta
venerdì 25 giugno 2010
Divertimento
Si dice sempre che chi va in libreria e si mette a sfogliare libri, alla fine, quello che compra, lo sceglie perché colpito dalla quarta di copertina o dalla lettura dell’incipit.
A me non sarebbe bastato neanche leggere tutto il primo paragrafo di questo libro per convincermi a comprarlo. Ma per fortuna sono stata costretta a leggerlo, per vari motivi e poi perché, sì insomma, prima o poi devi pur leggere qualcosa di Cortázar.
Dico per fortuna perché poi, se riesci ad andare oltre le prime pagine, ti fai coinvolgere dall’evolversi delle vicende e finisci per ritrovarti improvvisamente catapultato in mezzo ai barrios di Buenos Aires, che ti affascinano talmente tanto da sperare che quella passeggiata per le strade argentine duri il più a lungo possibile.
Certo, non sempre è facile seguire il filo logico di tutto quello che succede all’interno di questo romanzo, e infatti la matassa aggrovigliata da districare è una delle immagini fondamentali del libro, ma il nodo centrale della storia rimane pur sempre affascinante. Affascinante ma enigmatico. E a tratti inquietante.
I protagonisti sembrano affrontare la vita come fosse un passatempo – e il titolo del romanzo si presta anche all’interpretazione in senso musicale del termine “divertimento”, inteso come composizione di carattere leggero –; le vicende di questo gruppo di artisti, pittori, scrittori, poeti e sensitivi si svolge quasi in una dimensione parallela, snobisticamente rinchiusa all’interno del “Vivi come puoi”, un atelier dove i protagonisti si incontrano regolarmente per ascoltare musica, dipingere, dedicarsi a diversi esercizi di stile, componendo sonetti o declamando poesie automatiche, e addentrarsi in conversazioni letterarie arricchite da citazioni colte. Ma non mancherà neanche una seduta spiritica, volta a sottolineare la dimensione oscura dell’opera, la parte surrealista, che si mescola alla realtà senza creare contrasto: reale e fantastico coesistono, differenti universi paralleli riescono a comunicare grazie a dei ponti di passaggio. La dimensione onirica e irreale è lo specchio dell’angoscia della condizione umana ed esprime con ironia l’incapacità dell’uomo di trovare un senso alla propria esistenza.
E quando si scopre che il quadro surrealista, dipinto da Renato a seguito di un sogno o di una premonizione sul futuro, rappresenta una casa che esiste davvero, i personaggi sono quasi costretti ad affrontare il mondo esterno per trovare un collegamento tra i due livelli di realtà.
Il vortice degli eventi si srotola, allora, per le vie e i quartieri di Buenos Aires, facendo immergere il lettore in un’atmosfera tutta argentina, fatta di caffè storici, mate, siesta e altre particolarità tipiche della capitale, mentre due personaggi vanno alla ricerca della casa del quadro.
Il romanzo è talmente impregnato di cultura argentina che giunge al lettore italiano come un libro dichiaratamente nato e ambientato all’estero, un libro dichiaratamente tradotto, ma un libro che arricchisce, avvicinando il lettore alla lingua e alla cultura di partenza.
Del resto era impensabile censurare o appiattire quei tratti dell’identità argentina offerti dallo scrittore. Sebbene, infatti, fosse quasi impossibile riuscire a mantenerli tutti (in quanto, per esempio, in italiano i personaggi non avrebbero mai potuto interloquire utilizzando il vos, come fanno gli argentini), bisognava cercare di non fare troppe rinunce.
Tornando, quindi, alla perlustrazione della città: il ritrovamento della casa del quadro pare indirizzare la storia verso uno scioglimento dell’intreccio e lascia sperare in una conclusione chiarificatrice, ma il finale a sorpresa tornerà a scombinare gli schemi e a rigettare il gruppo dei protagonisti in una dimensione sospesa tra realtà e sogno, con il tipico sarcasmo attraverso cui l’autore dipinge la precarietà della condizione umana.
Cortázar, infatti, si sarà sicuramente “divertito” a scrivere questo romanzo, e lo stesso abuso di citazioni letterarie e riferimenti storici, artistici e culturali non va considerato come espressione di snobismo intellettuale o mero sfoggio di cultura. Molti di questi elementi, che si inseriscono nel romanzo come tanti pezzi di un puzzle, sono, infatti, volutamente oscuri, di difficile comprensione anche per il lettore argentino che legge in lingua originale: un garbuglio di poesie automatiche improvvisate, giochi di parole, frasi in lingue straniere, termini poco usuali (come “salmodiammo” e “malmostosa”), versi, brani di canzoni, titoli di film o di opere letterarie, riferimenti a personaggi storici, a opere d’arte o a luoghi famosi accompagna il lettore, a volte confondendolo, dalla prima all’ultima pagina; e questo gioco continua anche a livello grafico, quando le frasi vengono disposte per esempio a scala. Tutto ciò perché l’autore ritiene, così facendo, di arricchire il lettore, in quanto è convinto che ogni evento e ogni esperienza di vita di un uomo influisca sulla sua visione del mondo.
E si può di certo convenire che, portata a termine la lettura, si percepisce di aver acquisito molto.
Renata Lo Iacono