venerdì 4 marzo 2016

Cucunci | #2 Storie di Pirati Feroci e le loro Crudeltà












Dai fiori dei capperi nascono i cucunci e anche il nostro blog produce i suoi frutti.
Cucunci è la nuova rubrica di Capperi a cura di Andrea Cafarella. Ogni mese alcuni appuntamenti con degli autori: direttamente con le loro pagine e le loro parole.

Tema del giorno: storie di pirati feroci e le loro crudeltà.


Se aveva l’aspetto di una furia, i suoi capricci 
e scoppi d’ira ben vi si addicevano. Riferiremo altre due o tre sue stravaganze che abbiamo omesso nel corpo del racconto, dalle quali risulterà a qual culmine di malvagità possa arrivare la natura umana se le sue passioni non vengono tenute a freno.
Nella repubblica dei pirati, colui che tocca gli estremi della malvagità è da loro considerato con una sorta di invidia, come una persone di più straordinario valore, e ha diritto a qualche carica; e per poco coraggio che abbia, tanto basta per farne un grand’uomo. L’eroe di cui scriviamo era perfetto in questo senso, e alcuni suoi capricci malvagi erano così eccessivi da far pensare che volesse spacciarsi ai suoi uomini per un diavolo incarnato; perché un giorno, trovandosi in mare, e un po’ alterato dal bere, disse «Suvvia, facciamoci un inferno tutto nostro, e vediamo quanto riusciamo a resisterci.»; quindi scese nella stiva insieme con due o tre altri e, chiusi i boccaporti, riempì diversi recipienti di zolfo e, di altre materie combustibili, cui diede fuoco, continuando cos’ finché non furono quasi soffocati, quando alcuni presero a invocare a gran voce l’aria; infine aprì i boccaporti, non poso soddisfatto di essere stato quello che aveva resistito più a lungo.

Tratto da Il Capitano Teach alias Barbanera
Daniel Defoe, Storie di Pirati. Dal capitano Barbanera alle donne corsaro, Mondadori ‘Oscar’, 2004. Titolo originale A General History of the Pyrates, traduzione a cura di Mario Carpitella.


E quel coraggioso voltò la schiena al cuoco e si avviò verso la spiaggia. Ma non era destinato a fare molta strada. Con un grido, John Silver afferrò il ramo di un albero, si sfilò la stampella sottobraccio e la scagliò in aria come un proiettile rudimentale. Colpì davvero il povero Tom di punta, con una violenza incredibile, proprio al centro della schiena, tra le scapole. Le sue mani si agitarono in aria, emise come un rantolo e cadde.
Se la ferita fosse grave o lieve, nessuno potrà mai dirlo. A giudicare dal rumore, la botta doveva avergli spezzato la spina dorsale. In ogni caso, non ebbe il tempo di riprendersi. In un attimo Silver, agile come una scimmia pur senza gamba né stampella, gli fu addosso, e per due volte affondò il coltello fino all’elsa in quel corpo indifeso. Dal mio nascondiglio lo sentii ansare forte mentre sferrava i colpi.
Non so come sia esattamente svenire, ma so che allora tutto il mondo si allontanò per un po’ dai miei occhi fluttuando in un fosco turbinio; Silver e gli uccelli e l’alta cima del Cannocchiale mi giravano e vorticavano davanti tutti alla rinfusa, e scampanii di ogni sorta misti a voci lontane rintronavano nelle mie orecchie.
Quando tornai in me il mostro si era ricomposto, la stampella sotto il braccio, il cappello in testa. Proprio davanti a lui Tom giaceva a terra immobile; ma l’assassino non gli badò nemmeno, preso com’era a pulire il coltello insanguinato con un ciuffo d’erba. Per il resto non era cambiato nulla: il sole splendeva ancora implacabile sulla palude fumante e sul picco della montagna, e io quasi non riuscivo a convincermi che un omicidio fosse stato perpetrato davvero, e che pochi istanti prima una vita umana fosse stata crudelmente spezzata sotto i miei occhi.

Tratto da Capitolo quattordicesimo. Il primo colpo
Robert Louis Stevenson, L’isola del Tesoro, Einaudi ‘ET Classici’, 2015. Titolo originale Treasure Island, traduzione a cura di Massimo Bocchiola.

“Maledizione”, ho sentito che diceva Cane Nero dietro di me. “Ci ha rovinato tutto il divertimento.”
Notai anche quanto al chirurgo sembrasse ripugnare il suo compito. Evidentemente, dopo tutto, aveva anche lui un punto debole nella sua torbida coscienza. Era una scoperta che poteva sempre tornarmi utile un giorno o l’altro.
Quando la gamba di Deval fu tagliata la sollevai in alto e mi avvicinai al fuoco. Il silenzio era assoluto, a parte il respiro affannoso del chirurgo. Presi uno degli spiedi e infilzai la gamba di Deval dall’alto in basso, in un colpo solo, come va fatto. Ma questa volta nessuno lanciò grida di giubilo, benché fossero tutti dei fini apprezzatori. Poi la misi sul fuoco.
“Questo è quel che io chiamo un Barbecue!” gridai.
Per un bel po’ nessuno disse nulla, poi si levò la voce incrinata di Pew, chi altri mai, quando arrivò a capire quel che avevo fatto. Il suo naso non era stato danneggiato dall’esplosione, evidentemente.
“Urrà per Silver!” gridò con entusiasmo. “Urrà per Barbecue!”
Alcuni urrà esitanti si alzarono da varie parti. Ma non si può dire che venissero dal cuore. Dalla paura, al caso. Una paura folle. E non era forse questo il mio scopo? Cosa m’importava di Deval? Avrei potuto benissimo sparargli un colpo. Dentro di me avrei forse preferito mettergli subito una palla in corpo. Dopo tutto sarebbe stato più generoso, per Deval. Ma ora ero più sicuro che nessuno mi si sarebbe messo contro per un bel po’, neppure alle spalle. Mi avrebbero lasciato in pace. Semplice, no?

Tratto da Capitolo 2
Björn Larsson, La vera storia del pirata Long John Silver, Iperborea, 1998. Titolo originale Long John Silver, Norstedts Förlag AB, Stoccolma, 1995, traduzione a cura di Katia De Marco.


Andrea Cafarella
Artwork: Gloria Di Bella

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