Quando avevo all’incirca nove anni, la mia idea di amore
inglobava solo ed esclusivamente queste tre entità spirituali che consideravo
pressoché indefettibili: le patate arrosto di mia madre, la torta di ricotta
della pasticceria Vissana e la psicosi faziosa di Robbie Williams. Di tanto in
tanto, in base alla succosa offerta, nel mezzo c’infilavo pure qualche micio
randagio, che accudivo con la stessa premura con cui Owen Lars e Beru Whitesun
avevano cresciuto il giovane Luke Skywalker su Tatooine.
Per Robbie Williams, in particolare, nutrivo una vera e
propria infatuazione. Lui era il mio ragazzo dagli occhi chiari e dal sorriso
pagliaccio, e sebbene non ci frequentassimo granché, ogni sera mi ritagliavo
qualche istante di tempo per scrivergli delle accorate lettere candite (a
volte, anche un po’ scocciate).
“Caro Rob, lo so che Gary Barlow è uno stronzo, ma tu devi
andare avanti per la tua strada. Io ti sosterrò sempre. Sei troppo bello, però,
cazzarola, devi per forza sbaciucchiartele tutte quelle che saltano sul palco?
Sono un po’ gelosa, ecco, la fava tienitela nelle mutande.”
Malgrado l’assenza di risposte, avevo comunque sviluppato
una sorta di fedele pazienza nei suoi confronti, dovuta principalmente alla
mole generosa di pensieri impuri che mi regalava il suo corpo ballerino in zona
basso ventre – leggasi: culo di marmo, fondoschiena scolpito, sguardo sboccato.
La mia venerazione impube finì persino per costringere mia
madre a comprarmi una camicia a scacchi blu di flanella – che al giorno d’oggi
indosserebbe solo mio nonno – e un paio di Dr Martens bordeaux, grazie ai quali
negli anni ’90 mi sentivo più cool: la popstar inglese, bramata dalle pischelle
di mezza Europa, un giorno sarebbe caduta inevitabilmente ai miei piedi.
La faccenda, tuttavia, s’incrinò un poco quando alle medie
mi presi una cotta madornale per un tipo che, guarda caso, era affetto dagli
stessi disturbi mentali del mio lover britannico e che mi confessò in una
lettera di fine anno: “Un giorno, chi lo sa, ci rincontreremo e, magari, avrò
una possibilità nel tuo cuore. Inoltre, mi piaci perché sai l’inglese.”
Quella dichiarazione mi turbò al punto che cominciai
seriamente a interrogarmi sulla consistenza dell’amore, rovistando tra le
copertine di Cioè e le canzoni rubate in radio.
Premesso ciò, due estati fa fui catapultata nell’universo di Carlotta: una bimba riccioluta con gli occhi azzurri come il cielo terso di montagna e una capacità innata di farmi arruffare il piumaggio in meno di un nanosecondo.
Premesso ciò, due estati fa fui catapultata nell’universo di Carlotta: una bimba riccioluta con gli occhi azzurri come il cielo terso di montagna e una capacità innata di farmi arruffare il piumaggio in meno di un nanosecondo.
Che avesse qualche problema affettivo, l’avevo già intuito
dopo una settimana di babysitteraggio invasato; per lei, infatti, la parola
amore – “bleah, che schifo!” – equivaleva a:
- Mio padre non vive più con me, non telefona mai;
- Mia nonna dice che sono cicciotta;
- Mia madre preferisce le sue amiche a me;
- Tutti coccolano mio fratello e non me;
- E tu? Tu stai con me soltanto perché ti pagano… grrr.
Un pomeriggio, nel vano tentativo di convincerla che sua
madre le voleva bene e che da adulta avrebbe compreso il vero[S1] motivo per cui i genitori non sempre sono
coerenti, mi incenerì con lo sguardo, regalandomi un attacco d’ira spossante.
Posseduta dallo spirito di Eddie Guerrero, iniziò a lanciarmi pugni sul petto:
“Oh, ma tu sai dire solo stronzate? La vedi mamma laggiù?” borbottò, indicando
un corpo snello ricurvo su se stesso. Annuii col capo, rassegnata. “Invece di
giocare con me, come fanno le mamme delle mie amiche, lei che fa? Vive
appiccicata a WhatsApp, ecco che fa! A quella non gliene frega proprio niente
di me e tu sei una stupida. Svegliati!”
Da allora, ogni qualvolta Carlotta avvertiva il bisogno
impellente di sfogare la sua frustrazione scambiandomi per un sacco da boxe,
presi l’abitudine ad abbracciarla forte e a ripeterle che io, per lei, ci sarei
stata. Generalmente rispondeva avvampando in volto, indifesa e arrendevole.
Durante l’estate, mantenne questo rapporto di sfida e
tenerezza – cardine centrale della nostra quotidianità – fino a quando un
giorno, dopo avere stranamente collaborato ai compiti per le vacanze, affrontò
una questione che le stava molto a cuore.
“Senti, c’è una cosa che vorrei confidarti” esordì
misteriosa.
“Yes, spara” la incitai incuriosita. “Giuro che rimane tra
me e te… un segreto è un segreto, no?!”
“Be’, non prendermi in giro, ma… mi spieghi come cacchio si
fa a fare zigulì zigulà con un maschio?” vomitò impacciata, mimando l’atto
sessuale.
Non so di preciso cosa andò storto, ma le abbozzai una
versione horror degna di Stephen King.
“Quel bastoncino che
gli uomini hanno tra le gambe, proprio come tu hai la topetta…” arrancai.
“Sì, il cazzo e la fica” puntualizzò compiaciuta.
“Grazie per il suggerimento” sorrisi sarcastica. “Insomma,
il pisello bussa alla porta della tua topa e quella se gli sta abbastanza
simpatico apre. Poi una volta dentro, va a salutare…”
“Sul serio ho delle cose dentro?”
“Sì Carlo’, cioè… immagina che sei una gallina e nella tua
pancia ci siano tante uova. Tecnicamente si chiamano ovuli, ma te lo
insegneranno a scuola. Il pisello, invece, siccome non vuole essere da meno, al
posto delle uova cova dei vermi”.
“Quindi mio fratello c’ha i lombrichi nell’aggeggio?”
“Casomai gli spermatozoi, tesoro. Mo’ proprio lombrichi non
sono, però hanno più o meno la stessa forma. Comunque, questi spermatozoi entrano
nelle uova per stringerci amicizia…”
“Boh, è che se io vado in bagno cago e piscio, mica faccio
le uova! Coccodè!”
“Mammamia Carlo’, oggi fai concorrenza a uno scaricatore di
porto! È un esempio idiota, ma non so come altro spiegartelo. Vabbè, vedila
così: tu sei nata perché uno di quei vermicelli ha abbracciato una di quelle
uova, che in seguito hanno deciso di farsi un regalo per festeggiare il loro
incontro: te.”
“Ok ok, quindi uno te lo deve ficcare qui” capitolò
maliziosa, sbirciandosi nelle mutande.
“Capito, tanto lo sapevo già! Andiamo a fare i tuffi?”
“Sì, ciccia, sarà meglio” conclusi sconfitta.
L’ultimo giorno che trascorremmo insieme la portai a
passeggio in riva al mare. A Carlotta piaceva camminare, ma più di tutto nel
vagabondare qua e là ricercava una prova dell’amore, una specie di traccia
visibile di quello che lei pretendeva e respirava come una mancanza. E credette
di averla scovata, finalmente, rovistando indiscreta tra i corpi nudi di due
ragazzi che copulavano spudoratamente a qualche metro da me. Restò impalata a
fissarli, pizzicandomi il braccio: “Ehi, li hai visti quei due? Scopano!”
berciò divertita e imbarazzata.
Quando la sera ci salutammo, realizzò che l’estate era
finita.
In mezzo al cicaleccio a intermittenza di parenti e amici
vari, si tramutò in pietra: restammo immobili, una davanti all’altra, senza
proferire parola.
E mentre la osservavo dipingersi di rosso per una commozione
trattenuta – i bambini insicuri hanno pudore nel mostrare la loro fragilità –
avrei tanto voluto rivelarle che per me, alla sua età, prima ancora dello
scioglimento ufficiale dei Take That e poi della mia famiglia, l’amore era
stato: una teglia di patate arrosto bollenti che mia madre mi lasciava
scofanare brutalmente per cena; una fetta di torta profumata di ricotta che mio
padre mi metteva via di ritorno dalle escursioni in montagna; e Robbie
Williams, che tra una sculettata in Sure e una giravolta in Everything changes,
mi strizzava l’occhio.
Invece, mi limitai ad accarezzarle la guancia, beccandomi un
pugno d’argilla e un grugnito di miele.
In quell’istante scolpito dalla brezza di mare, forse
Carlotta capì che l’amore, al di là dei corteggiamenti infoiati tra uova e
vermi, spesso ci viene donato dalle persone più inaspettate, perché esiste
sempre qualcuno in grado di rispettare e talvolta perfino abbellire le nostre voragini, senza volerle
riempire a tutti i costi.
Non ho più incontrato Carlotta. Di lei ricordo i musi
lunghi, le lotte sopra il materassino, i tentativi di affogarmi e le linguacce.
Infine, ricordo il sorriso umido e le lacrime sincere che spuntarono timide
dalle sue pupille, mentre la salutavo per l’ultima volta.
Post scriptum.
Ho tradito l’ex Take That con Jerry Lee Lewis, e m’è pure
piaciuto. Però sia chiaro, a scanso di equivoci, non l’ho mai perdonato per
aver sposato Ayda Field. Quella baldracca!
Testo: Serena Rossi
Illustrazione: Adele Iacovella
Artwork: Gloria Di Bella
Questo angolo di Cucunci sarà sempre dedicato a inediti ed
esordienti. Vorrei metterci dentro dei testi belli: narrativa, poesia, ma anche
altro. Vorrei dare spazio anche alle immagini: fotografie, illustrazioni di
ogni tipo e qualsiasi cosa vi venga in mente.
Potete mandarmi una e-mail su: andreacafarella@gmail.com
Sarò felice di leggervi e se è il caso, darvi spazio in
questa rubrica che mi è stata immeritatamente assegnata. Grazie.
Buona lettura!
Andrea Cafarella
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