venerdì 13 agosto 2010

Un solitario amore


Con un magnifico capogiro rinnovo la lettura dei versi di Beppe Salvia;
è una decisione vinta in partenza: me ne re-innamorerò.
Sarà ‘ché con la sua “otto volante” poesia riprendo una sorta di equilibrio con il mondo delle cose, quello che dai sentimenti e dalle sensazioni adunchi si rifà i lineamenti chiari e più “adatti” a leggerle, come soffondendosi per conviverci, con nuova forza linfa parola d’accenti accesa, nuovamente accessibile a quel fiuto che sopravvive a ogni dimenticanza, come un filo sul vetro.
Sarà perché le liriche di Salvia partendo dall’otto coricato, tracciano e traggono una serie di corrispondenze tra echi leopardiani, non indietreggiando né varcando, solo oltrepassando, quel certo pessimista, romantico, nostro poeta innato, e pure dalle spalle innevate mi viene da dire; e i gloriosi “ottanta” nostri diretti parenti in fatto di risveglio delle coscienze artistiche post-rivoluzione e pre-computerizzazione.
Rileggo il libro che raccoglie l’opera di Beppe Salvia, intitolato “un solitario amore”, probabilmente da un suo verso, lo riapro oggi che piove, nel ricordo di ieri che era primavera, e ritrovo ogni climax e ogni sintomo di una stagione senza fine, compresa ogni fine e inizio di stagione, di cambio e scambio di prospettiva di clima, luce del sole, sguardo in proiezione a dove tramonterà, e pure io a seguito suo, ho una sensazione di poter tramontare e tramutare, tra quei fogli segna-posto, segna-verso, segna-sogni, dei quali disimbottisco il libro per ripartire da zero, e leggere, con il trasporto e la curiosità di ricominciare daccapo, da capo a coda, e imparare sempre qualcosa di nuovo, come quando, paragone a me caro, ma proprio per affezione più che per riferimento, riascolto i dischi di Nick Drake, e vi trovo sempre una inflessione nuova di canto e accorgimenti di una certa perfezione musicale, soul, folk, naturale come il cangiante verde di un bosco, tutti quei verdi indicibili, impossibili a mio avviso da ritrattare nella tavola dei colori, tutti quei versi impossibili da citare se non regalandovi il suo libro con l’opera omnia e poterne parlare, sempre con il limite di non doverli necessariamente leggere ad alta voce.
Il poeta ha una pena a due ottavi. Quella vera, umana, e un’altra, neppure indotta o dichiarata all’anagrafe dopo il secondo nome, o sullo stato di famiglia riconosciuta come prole o continuazione del proprio nome, dicevo che l’altra, la pena continua/contigua, la cura meticolosa, è quella delle parole, che non sono quelle da scrivere, ma quelle da raccolta del quotidiano esistere, quelle che talvolta stridono mentre tutto fila liscio come il quotidiano, e quelle che si appiattiscono mentre il mondo magari va in fiamme, e non sono proprio secchi d’acqua o mezzi da pompiere, piuttosto fiammiferi per fiammelle ulteriori.



Giampaolo De Pietro


M'innamoro di cose lontane e vicine,
lavoro e sono rispettato, infine
anch'io ho trovato un leggero confine,
a questo mondo che non si può fuggire.
Forse scopriranno una nuova legge
universale, e altre cose e uomini
impareremo ad amare. Ma io ho nostalgia
delle cose impossibili, voglio tornare
indietro. Domani mi licenzio, e bevo
e vedo chimere e sento scomparire
lontane cose e vicine.

da Cuore, cieli celesti

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