sabato 1 agosto 2015

Ines. Tra la pietas e il minuto quotidiano

Se avessi ancora un walkman lo utilizzerei per ascoltare il libro di Dario Accolla “Da quando Ines è andata a vivere in città” (Ed. Zona). È una raccolta di racconti pubblicata nel 2014, eppure – vuoi per lo stile e per la trovata di cadenzare il testo non in serie di capitoli, ma in successioni di canzoni come una playlist – ha un autentico sapore anni ’80. Leggendolo mi viene da pensare al “mio self” del “Pao Pao” di Tondelli o comunque il pensiero viene proiettato a quel tempo in cui l’essere omosessuale rappresentò davvero un favoloso atto politico.
Che Accolla sia stato un militante LGBT (e che lo sia tuttora in forme differenti) traspare da ogni pagina che si legge, perfino da quelle che a primo acchito parlano “solo” di sentimenti; egli ha tradotto in parole fruibili i movimenti dell’animo che portano un omosessuale a scegliere la militanza o, comunque, a vivere combattendo. Non c’è bisogno della lotta fatta di slogan per combattere la battaglia sul campo delle proprie emozioni (e su quello delle emozioni altrui, ben più pericoloso) e, bene o male, volente o nolente, qualunque persona gay o lesbica o transessuale ad un certo punto della propria vita s’è ritrovata con le armi in mano.

Tuttavia Accolla descrive con semplicità (e scansando abilmente il pericolo sempre in agguato della banalità) il panorama delle emozioni tout court, quel panorama senza orientamento sessuale e quindi con tutti gli orientamenti sessuali e con tutte le identità di genere; è, in breve, una fessura universale attraverso cui osservare le vite di tutte e tutti: l’amore, l’amicizia, il “self”, la verità, l’abbandono, il dolore.

Sul proprio sé e sulla verità si giocano molte delle vite narrate in “Ines”, su quel palcoscenico che è il nostro corpo si mette in scena la drammatizzazione del conflitto con l’autenticità: procediamo intimoriti lungo percorsi di ricerca e giungiamo a verità che avevamo già intuito, come nel caso della protagonista del racconto “Chiamami Ines”; facciamo i conti con l’accettazione dell’abbandono e con ciò che si è, come in “Le due verità”; decidiamo che è meglio vivere una finzione che migliori la realtà, allo stesso modo dei protagonisti di “Come la prima volta”; giochiamo, insomma, il gioco del nascondimento e del disvelamento, come quegli anemoni di mare che danzano in continue aperture e chiusure sospinti dai flussi sottomarini, che per noi sono gli accadimenti.

Nei sette racconti in Playlist (più un ottavo in Ghost Track) si può trovare il “minuto quotidiano” fatto di quelle piccole cose di ogni giorno che insaporiscono le relazioni e le vite: si percepisce il profumo delle erbe aromatiche, delle spezie della cucina, del caffè ovvero i modi minimi del prendersi cura di sé e degli altri trovando riposo e rifugio in piccole porzioni di spazio e di tempo.

Nel prendersi cura ho trovato, alla fine della lettura, un filo conduttore tra le storie e le vite narrate dall'autore e cioè un senso di pietas, di compartecipazione emotiva, di vicinanza che, anche se proprio alla fine, ti fa capire che non sei solo, ti sussurra con fermezza che accanto a te c’è qualcuno pronto a sorreggerti, ad accoglierti in un abbraccio, a starti vicino. Accade così per Ines che riceve questa pietas così che poi sia ella stessa a poterla donare, accade a Carmen ne “Le due verità” che viene “salvata” e che così può salvarsi da sé, succede reciprocamente per l’uomo e la donna di “Come la prima volta”, e perfino nel surreale racconto “Il sorriso della Gioconda” (che l’autore mi dedica, cosa che mi ha reso felice) in cui i protagonisti vengono dirottati da un angelo verso una luculliana mensa a base di crostacei.

A mio avviso, questo accade, l’irrompere della pietas intendo, perché Dario, e molti di noi come lui, nel corso delle nostre vite e lungo la strada della nostra affermazione, abbiamo incontrato alcuni mostri da combattere ed è legittimo che emerga il forte desiderio che qualcuno ci attesti la propria prossimità.


In finire e a parte, una deliziosa Ghost Track (“Il grappolo”) in cui i protagonisti sono il desiderio, una suora, un grappolo d’uva e un’altra suora. Se i racconti di Dario fossero un film – oltre che un concept album – sarebbe perfetto chiuderlo con quella scena (come del resto accade): me la immagino giallo di sole e di tufo, fuori dal mondo, in un tempo sospeso, autentica e irriverente e che fa ridere sempre la madre dell’autore, come accade ogni volta che lo legge.

F. Alessandro Motta

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