giovedì 6 agosto 2015

Der Kinotraum. Cinema e sogno in Grand Budapest Hotel di Wes Anderson

C'era una volta la ex repubblica di Zubrovka, un tempo sede di un impero, dove, nel cimitero ebraico della cittadina di Lutz, riposa l'Autore di un libro intitolato al Grand Budapest Hotel, lussuosa residenza di ricche nobildonne mitteleuropee, amorevolmente accudite dal concierge Monsieur Gustave H. e dal suo garzoncello (lobby boy) Zero, che insieme vivranno la più straordinaria delle avventure.

È questa la storia che Wes Anderson ci racconta nel suo ultimo film, ma non bisogna farsi incantare dalla vaghezza evocativa dei luoghi (l'immaginaria repubblica di Zubrovka e le sue cittadine innevate) o dalla vivezza dei suoi personaggi (buoni o cattivi, comunque bizzarri, imprevedibili, eccessivi, lontanissimi da ogni naturalismo psicologico), né dall'eccezionalità delle situazioni o dalla fortunosità degli accadimenti (immense eredità, omicidi, inseguimenti, fughe, trafugamenti, evasioni e rivelazioni clamorose): quelle che il regista texano ci racconta non sono mai fiabe, semmai sogni, e di questi hanno l'icasticità e il brusco risveglio; i suoi personaggi, coltivatori di bislacche aspirazioni difese con strenua, assoluta e forse infantile dedizione, sono infine costretti a confrontarsi con la realtà – per ritrovarsi poi segnati, forse anche cambiati, da quello che è sempre uno scontro – ma né vincitori, né sconfitti. Il registro dominante è quindi spesso quello della nostalgia, perlopiù familiar-sentimentale, intesa come aspirazione a una condizione altra (o forse come anelito al lontano-da-tutto, in una sorta di ricerca rovesciata di se stessi); il racconto però segue sempre i toni scanzonati della commedia, dai più accesi della farsa ai più delicati della sophisticated comedy.
Per GBH, Anderson sventola le insegne degli europei Zweig e Lubitsch, a cui dice di essersi ispirato; l'uno scrittore viennese, l'altro regista berlinese, entrambi nostalgici cantori della raffinatissima civiltà anteguerra, seppure in modo diverso – Zweig sentimentale, Lubitsch ironico. Insieme esprimono alla perfezione il registro wesandersoniano comico-sentimental-nostalgico, e sebbene la nostalgia – o la nostalgia della nostalgia - qui sia estesa a un'intera epoca e ai suoi urbanissimi costumi, a ben guardare anche in questo film c'è un microcosmo familiare, con le sue gioie e i suoi dolori. E' quello del giovanissimo Zero, orfano fuggito dal proprio paese a seguito dell'«insurrezione del deserto» e del putativo padre M. Gustave (che infine lo lascerà, come un vero padre, erede di una fortuna).
M. Gustave ci viene presentato come un uomo elegante e dai modi squisitamente cortesi, che considera quello di concierge (se lo traducessimo con portiere faremmo torto al nostro personaggio) non tanto un lavoro quanto una missione, per cui servono doti non comuni di attenzione, comprensione delle umane esigenze, spirito di servizio e discrezione. Suo compito è quello di abbellire le esistenze dei suoi ospiti ponendo tutto quanto c'è di spiacevole o poco gradevole (compresi gli stessi servitori) lontano dalla loro vista. M. Gustave porge a ciascuno il più affabile dei volti, scrivendo nobili versi che poi legge ai suoi sottoposti mentre costoro cenano, profumando generosamente se stesso con la fragranza Air de Panache, seducendo sistematicamente le anziane ricchissime gentildonne ospiti del GBH: nulla sappiamo del suo passato, ma egli è stato un garzoncello come Zero, e ciò, insieme a certe faconde scurrilità espresse in privato e a una discreta conoscenza dei modi carcerari, ci lascia intravedere un'origine umile e un'ascesa dal basso, parimenti al suo allievo.
Gustave rivede in Zero se stesso giovane, solerte e sagace ma solo al mondo: entrambi abitano frugalmente la più lussuosa delle dimore – che pure non è una casa, ed entrambi sono outsiders in un mondo ostile, dove è difficile sopravvivere senza amici e protezione – e il self made man Gustave prenderà l'adolescente Zero sotto la propria protezione, non soltanto insegnandogli tutti i segreti del mestiere, ma proteggendolo nella sua fragile condizione di “emigrante”, sino a mettere a repentaglio la propria incolumità. GBH è il primo film di Anderson che mostra, seppure nei toni comici e caricaturali cari al regista, una stratificazione sociale: Zero (il nome è programmatico) è povero, Gustave lo è soltanto un po' meno di lui, i clienti del Grand Budapest sono ricchi, ricchissimi; gli uni servono gli altri. Sebbene Anderson tifi apertamente per gli uni (i nostri lavoratori alberghieri sono scaltri, efficienti, organizzati: hanno persino una sorta di fratellanza, associazione segreta che provvede alle loro necessità in caso di emergenza) piuttosto che per gli altri (che sono palesemente inetti, siano clienti dell'albergo o ricchissimi baroni e baronesse), la stratificazione sociale non degenera in lotta di classe, ed è piuttosto il destino a scompigliare le carte: M. Gustave diventerà l'erede designato della immensa fortuna della baronessa Desgoffe und Taxis – ma per questo sarà accusato del suo omicidio dal cattivissimo figlio di lei, Dmitri. Toccherà a Zero sbrogliare l'intricata matassa, e palesare al suo mentore tutta la sua dedizione e la sua capacità, aiutandolo ad evadere dalla prigione-fortezza nella quale è stato rinchiuso e a dimostrare la sua innocenza. Sembrerebbe una fiaba con happy ending, una di quelle che risolvono d'un sol colpo tutte le aspirazioni dei protagonisti. Ma il destino, con il suo stile “misterioso e sommariamente affidabile”, ha in serbo altro per i nostri protagonisti. Zero si ritroverà proprietario di enormi ricchezze, ma nuovamente solo – immerso in un triste presente in bianco-nero, dopo i giorni felici del suo matrimonio, avvenuto tra le cime innevate del Sudetenwaltz alpino, alla presenza di M. Gustave e di pochi, coloratissimi amici. E' un epilogo quanto mai malinconico, rovesciamento del lieto fine della fiaba: le tristezze dei fuoriusciti, la difficoltà di farsi strada nel mondo (piuttosto che di crescere, come per altri personaggi wesandersoniani: i nostri protagonisti sono cresciuti molto in fretta), la solitudine, non incontrano riscatto, e l'unica bolla di felicità resta quella, invecchiata ed in declino, del GBH.
Tutto questo ci viene raccontato dall'Autore nel libro intitolato al Grand Hotel, che una misteriosa ragazza legge su una panchina del cimitero ebraico di Lutz, all'inizio del film: e questa lettura diventa ciò che noi spettatori vediamo. L'Autore racconta la genesi del libro, il suo casuale incontro con uno Zero ormai anziano al GBH e la loro lunga conversazione, svoltasi durante una cena. Stagliati nella cornice del racconto (bisogna ricordare quanto il nostro regista ami le cornici, e i procedimenti di mise en abyme, solitamente visivi – la composizione stratificata dell'immagine, il quadro nel quadro – e qui anche narrativi) i nostri protagonisti acquistano in epicità quanto perdono in verosimiglianza, e il ritmo forsennato che interessa la parte centrale del film, preludio dello scioglimento/agnizione, diventa quasi parodistico: attraverso l'evocazione di Lubitsch si raggiunge il brio perfetto delle comiche del cinema delle origini. Perché ogni film di Anderson è anche un discorso sul cinema, e l'epoca descritta nel film gli consente di rivolgere lo sguardo alla sua intera storia: se lo spirito della commedia è quello della sophisticated comedy e le gag sono puro slapstick anni '30, gli isterismi familiari dei baroni Desgoffe und Taxis ricordano quelli ambersoniani del film di Orson Welles L'orgoglio degli Amberson; il cattivissimo J.G. Jopling, al servizio del cattivissimo barone Dmitri, ha anelli su ciascun dito che ricordano i tatuaggi sulle dita (l-o-v-e su una mano e h-a-t-e sull'altra) del cattivissimo Robert Mitchum de La morte corre sul fiume (di Charles Laughton); la sparatoria dentro l'Hotel tra Dmitri e i militari occupanti (che hanno la spietatezza, il cipiglio torvo, e le uniformi grigie e nere dei nazisti) ricorda moltissimo il Tarantino di Bastardi senza gloria; la vicenda carceraria di M. Gustave ha la leggerezza di un musical, con omaccioni segnati e tatuati che si rivelano cuor d'oro o eloquenti e raffinati disegnatori; la lettera inviata al personale del GBH viene recitata dal nostro su un pulpito, alle sue spalle due ali di secondini da un lato e detenuti dall'altro, mentre dall'alto scendono degli strani fiocchi di neve: circola un'aria da pastiche spettacolistico alla Arancia Meccanica – ci sono momenti in cui il set si trasforma in una ribalta, con proiettori che si accendono sui protagonisti e una veduta statica, ovvero un fondale da palcoscenico, alle spalle (una luce sul volto dell'anziano Zero ne rivela le lacrime; il personale dell'albergo in posa per una foto di gruppo, sullo sfondo una quinta dipinta raffigurante il Sudetenwaltz alpino incorniciata da un sipario); i dialoghi sono spesso prettamente teatrali, con i personaggi perfettamente immobili (M. Gustave appena evaso e Zero, davanti la prigione o seduti sul pagliaio in mezzo al nulla); inoltre, ciascuna sezione del racconto ha un diverso formato di immagine, rettangolare stretto per la presentazione dell'Autore anziano, rettangolare largo, tipo cinemascope, per l'esposizione dell'Autore da giovane, e quadrato per tutto il tempo del racconto dell'anziano Zero, con il soggetto ripreso al centro usando una lente leggermente curva che deforma appena, rendendoli meno riconoscibili, gli oggetti periferici: come non ricordare le inquadrature-scatola del film di Kubrick? E come per il film di Kubrick, questo apparato visivo è impiegato in funzione anti-naturalistica, straniante, metalinguistica: qui il cinema parla di sé.

Se poi ci si sofferma su alcuni elementi della trama, l'accostamento più naturale è quello con un'altra pellicola kubrickiana: Shining. A cominciare dalla scansione in capitoli dai titoli fintamente indicativi di tempo e spazio come “1 settimana dopo”, “un mese prima”, “3 giorni dopo” o “la cima dell'Osservatorio a mezzogiorno” che, parimenti a quelli di Shining, segnano il tempo storico con il solo effetto di annullarlo progressivamente, di scioglierlo nel fluire inarrestabile degli eventi. Perché il Grand Budapest Hotel infine vuol essere, come l'Overlook Hotel, il luogo dove il Tempo si ripara dalla Storia, dove tutto può cambiare per rimanere sempre uguale (nazisti o comunisti, cosa cambia, sono comunque estranei invasori che profanano i tappeti felpati dell'Hotel o perfino ingaggiano sparatorie nei suoi corridoi), dove ci si può difendere dai guasti dell'esistenza e ritrovare un briciolo di gioia: Zero cede il suo ricco patrimonio in cambio dell'Hotel perché “eravamo stati felici, là”.  Infine, diversamente dall'Overlook Hotel, il Grand Budapest non è un luogo simbolico, né una metafora filosofica dell'esistenza, bensì il posto raffinato ed elegante dove si può avere la fortuna di trascorrere una stagione della vita bella ed avventurosa, e che, forse, insieme ai libri, ai ritratti, ai documenti con il nostro nome, ai vecchi giornali, alle carte d'identità con le indicazioni sbagliate, ai biglietti del guardaroba, alle foto in cui siamo venuti male, sopravviverà alla nostra esistenza quando noi non ci saremo più.

Loredana Di Pietro

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