C'era una volta
la ex repubblica di Zubrovka, un tempo sede di un impero, dove, nel cimitero
ebraico della cittadina di Lutz, riposa l'Autore di un libro intitolato al
Grand Budapest Hotel, lussuosa residenza di ricche nobildonne mitteleuropee,
amorevolmente accudite dal concierge Monsieur Gustave H. e dal suo
garzoncello (lobby boy) Zero, che insieme vivranno la più straordinaria
delle avventure.
È questa la storia che Wes Anderson ci racconta nel suo ultimo film, ma non bisogna farsi incantare dalla vaghezza evocativa dei luoghi (l'immaginaria repubblica di Zubrovka e le sue cittadine innevate) o dalla vivezza dei suoi personaggi (buoni o cattivi, comunque bizzarri, imprevedibili, eccessivi, lontanissimi da ogni naturalismo psicologico), né dall'eccezionalità delle situazioni o dalla fortunosità degli accadimenti (immense eredità, omicidi, inseguimenti, fughe, trafugamenti, evasioni e rivelazioni clamorose): quelle che il regista texano ci racconta non sono mai fiabe, semmai sogni, e di questi hanno l'icasticità e il brusco risveglio; i suoi personaggi, coltivatori di bislacche aspirazioni difese con strenua, assoluta e forse infantile dedizione, sono infine costretti a confrontarsi con la realtà – per ritrovarsi poi segnati, forse anche cambiati, da quello che è sempre uno scontro – ma né vincitori, né sconfitti. Il registro dominante è quindi spesso quello della nostalgia, perlopiù familiar-sentimentale, intesa come aspirazione a una condizione altra (o forse come anelito al lontano-da-tutto, in una sorta di ricerca rovesciata di se stessi); il racconto però segue sempre i toni scanzonati della commedia, dai più accesi della farsa ai più delicati della sophisticated comedy.
È questa la storia che Wes Anderson ci racconta nel suo ultimo film, ma non bisogna farsi incantare dalla vaghezza evocativa dei luoghi (l'immaginaria repubblica di Zubrovka e le sue cittadine innevate) o dalla vivezza dei suoi personaggi (buoni o cattivi, comunque bizzarri, imprevedibili, eccessivi, lontanissimi da ogni naturalismo psicologico), né dall'eccezionalità delle situazioni o dalla fortunosità degli accadimenti (immense eredità, omicidi, inseguimenti, fughe, trafugamenti, evasioni e rivelazioni clamorose): quelle che il regista texano ci racconta non sono mai fiabe, semmai sogni, e di questi hanno l'icasticità e il brusco risveglio; i suoi personaggi, coltivatori di bislacche aspirazioni difese con strenua, assoluta e forse infantile dedizione, sono infine costretti a confrontarsi con la realtà – per ritrovarsi poi segnati, forse anche cambiati, da quello che è sempre uno scontro – ma né vincitori, né sconfitti. Il registro dominante è quindi spesso quello della nostalgia, perlopiù familiar-sentimentale, intesa come aspirazione a una condizione altra (o forse come anelito al lontano-da-tutto, in una sorta di ricerca rovesciata di se stessi); il racconto però segue sempre i toni scanzonati della commedia, dai più accesi della farsa ai più delicati della sophisticated comedy.
Per GBH, Anderson
sventola le insegne degli europei Zweig e Lubitsch, a cui dice di essersi
ispirato; l'uno scrittore viennese, l'altro regista berlinese, entrambi
nostalgici cantori della raffinatissima civiltà anteguerra, seppure in modo
diverso – Zweig sentimentale, Lubitsch ironico. Insieme esprimono alla
perfezione il registro wesandersoniano comico-sentimental-nostalgico, e sebbene
la nostalgia – o la nostalgia della nostalgia - qui sia estesa a un'intera
epoca e ai suoi urbanissimi costumi, a ben guardare anche in questo film c'è un
microcosmo familiare, con le sue gioie e i suoi dolori. E' quello del
giovanissimo Zero, orfano fuggito dal proprio paese a seguito dell'«insurrezione
del deserto» e del putativo padre M. Gustave (che infine lo lascerà, come un
vero padre, erede di una fortuna).
M. Gustave ci
viene presentato come un uomo elegante e dai modi squisitamente cortesi, che
considera quello di concierge (se lo traducessimo con portiere
faremmo torto al nostro personaggio) non tanto un lavoro quanto una missione,
per cui servono doti non comuni di attenzione, comprensione delle umane
esigenze, spirito di servizio e discrezione. Suo compito è quello di abbellire
le esistenze dei suoi ospiti ponendo tutto quanto c'è di spiacevole o poco
gradevole (compresi gli stessi servitori) lontano dalla loro vista. M. Gustave
porge a ciascuno il più affabile dei volti, scrivendo nobili versi che poi
legge ai suoi sottoposti mentre costoro cenano, profumando generosamente se
stesso con la fragranza Air de Panache, seducendo sistematicamente le
anziane ricchissime gentildonne ospiti del GBH: nulla sappiamo del suo passato,
ma egli è stato un garzoncello come Zero, e ciò, insieme a certe faconde scurrilità
espresse in privato e a una discreta conoscenza dei modi carcerari, ci lascia
intravedere un'origine umile e un'ascesa dal basso, parimenti al suo allievo.
Gustave rivede in
Zero se stesso giovane, solerte e sagace ma solo al mondo: entrambi abitano
frugalmente la più lussuosa delle dimore – che pure non è una casa, ed entrambi
sono outsiders in un mondo ostile, dove è difficile sopravvivere senza
amici e protezione – e il self made man Gustave prenderà l'adolescente
Zero sotto la propria protezione, non soltanto insegnandogli tutti i segreti
del mestiere, ma proteggendolo nella sua fragile condizione di “emigrante”,
sino a mettere a repentaglio la propria incolumità. GBH è il primo film di
Anderson che mostra, seppure nei toni comici e caricaturali cari al regista,
una stratificazione sociale: Zero (il nome è programmatico) è povero, Gustave
lo è soltanto un po' meno di lui, i clienti del Grand Budapest sono ricchi,
ricchissimi; gli uni servono gli altri. Sebbene Anderson tifi apertamente per
gli uni (i nostri lavoratori alberghieri sono scaltri, efficienti, organizzati:
hanno persino una sorta di fratellanza, associazione segreta che
provvede alle loro necessità in caso di emergenza) piuttosto che per gli altri
(che sono palesemente inetti, siano clienti dell'albergo o ricchissimi baroni e
baronesse), la stratificazione sociale non degenera in lotta di classe, ed è
piuttosto il destino a scompigliare le carte: M. Gustave diventerà l'erede
designato della immensa fortuna della baronessa Desgoffe und Taxis – ma per
questo sarà accusato del suo omicidio dal cattivissimo figlio di lei, Dmitri.
Toccherà a Zero sbrogliare l'intricata matassa, e palesare al suo mentore tutta
la sua dedizione e la sua capacità, aiutandolo ad evadere dalla
prigione-fortezza nella quale è stato rinchiuso e a dimostrare la sua
innocenza. Sembrerebbe una fiaba con happy ending, una di quelle che
risolvono d'un sol colpo tutte le aspirazioni dei protagonisti. Ma il destino,
con il suo stile “misterioso e sommariamente affidabile”, ha in serbo altro per
i nostri protagonisti. Zero si ritroverà proprietario di enormi ricchezze, ma
nuovamente solo – immerso in un triste presente in bianco-nero, dopo i giorni
felici del suo matrimonio, avvenuto tra le cime innevate del Sudetenwaltz alpino,
alla presenza di M. Gustave e di pochi, coloratissimi amici. E' un epilogo
quanto mai malinconico, rovesciamento del lieto fine della fiaba: le
tristezze dei fuoriusciti, la difficoltà di farsi strada nel mondo (piuttosto
che di crescere, come per altri personaggi wesandersoniani: i nostri
protagonisti sono cresciuti molto in fretta), la solitudine, non incontrano
riscatto, e l'unica bolla di felicità resta quella, invecchiata ed in declino,
del GBH.
Tutto questo ci
viene raccontato dall'Autore nel libro intitolato al Grand Hotel, che una
misteriosa ragazza legge su una panchina del cimitero ebraico di Lutz,
all'inizio del film: e questa lettura diventa ciò che noi spettatori vediamo.
L'Autore racconta la genesi del libro, il suo casuale incontro con uno Zero
ormai anziano al GBH e la loro lunga conversazione, svoltasi durante una cena.
Stagliati nella cornice del racconto (bisogna ricordare quanto il nostro
regista ami le cornici, e i procedimenti di mise en abyme, solitamente visivi
– la composizione stratificata dell'immagine, il quadro nel quadro – e qui anche
narrativi) i nostri protagonisti acquistano in epicità quanto perdono in
verosimiglianza, e il ritmo forsennato che interessa la parte centrale del
film, preludio dello scioglimento/agnizione, diventa quasi parodistico:
attraverso l'evocazione di Lubitsch si raggiunge il brio perfetto delle comiche
del cinema delle origini. Perché ogni film di Anderson è anche un discorso sul
cinema, e l'epoca descritta nel film gli consente di rivolgere lo sguardo alla
sua intera storia: se lo spirito della commedia è quello della sophisticated
comedy e le gag sono puro slapstick anni '30, gli isterismi
familiari dei baroni Desgoffe und Taxis ricordano quelli ambersoniani del film
di Orson Welles L'orgoglio degli Amberson; il cattivissimo J.G. Jopling,
al servizio del cattivissimo barone Dmitri, ha anelli su ciascun dito che
ricordano i tatuaggi sulle dita (l-o-v-e su una mano e h-a-t-e
sull'altra) del cattivissimo Robert Mitchum de La morte corre sul fiume
(di Charles Laughton); la sparatoria dentro l'Hotel tra Dmitri e i militari
occupanti (che hanno la spietatezza, il cipiglio torvo, e le uniformi grigie e
nere dei nazisti) ricorda moltissimo il Tarantino di Bastardi senza gloria;
la vicenda carceraria di M. Gustave ha la leggerezza di un musical, con
omaccioni segnati e tatuati che si rivelano cuor d'oro o eloquenti e raffinati
disegnatori; la lettera inviata al personale del GBH viene recitata dal nostro
su un pulpito, alle sue spalle due ali di secondini da un lato e detenuti
dall'altro, mentre dall'alto scendono degli strani fiocchi di neve: circola
un'aria da pastiche spettacolistico alla Arancia Meccanica – ci
sono momenti in cui il set si trasforma in una ribalta, con proiettori che si
accendono sui protagonisti e una veduta statica, ovvero un fondale da
palcoscenico, alle spalle (una luce sul volto dell'anziano Zero ne rivela le
lacrime; il personale dell'albergo in posa per una foto di gruppo, sullo sfondo
una quinta dipinta raffigurante il Sudetenwaltz alpino incorniciata da un
sipario); i dialoghi sono spesso prettamente teatrali, con i personaggi
perfettamente immobili (M. Gustave appena evaso e Zero, davanti la prigione o
seduti sul pagliaio in mezzo al nulla); inoltre, ciascuna sezione del racconto
ha un diverso formato di immagine, rettangolare stretto per la presentazione
dell'Autore anziano, rettangolare largo, tipo cinemascope, per l'esposizione
dell'Autore da giovane, e quadrato per tutto il tempo del racconto dell'anziano
Zero, con il soggetto ripreso al centro usando una lente leggermente curva che
deforma appena, rendendoli meno riconoscibili, gli oggetti periferici: come non
ricordare le inquadrature-scatola del film di Kubrick? E come per il film di
Kubrick, questo apparato visivo è impiegato in funzione anti-naturalistica,
straniante, metalinguistica: qui il cinema parla di sé.
Se poi ci si
sofferma su alcuni elementi della trama, l'accostamento più naturale è quello
con un'altra pellicola kubrickiana: Shining. A cominciare dalla
scansione in capitoli dai titoli fintamente indicativi di tempo e spazio come
“1 settimana dopo”, “un mese prima”, “3 giorni dopo” o “la cima
dell'Osservatorio a mezzogiorno” che, parimenti a quelli di Shining, segnano
il tempo storico con il solo effetto di annullarlo progressivamente, di
scioglierlo nel fluire inarrestabile degli eventi. Perché il Grand Budapest
Hotel infine vuol essere, come l'Overlook Hotel, il luogo dove il Tempo si
ripara dalla Storia, dove tutto può cambiare per rimanere sempre uguale
(nazisti o comunisti, cosa cambia, sono comunque estranei invasori che
profanano i tappeti felpati dell'Hotel o perfino ingaggiano sparatorie nei suoi
corridoi), dove ci si può difendere dai guasti dell'esistenza e ritrovare un
briciolo di gioia: Zero cede il suo ricco patrimonio in cambio dell'Hotel
perché “eravamo stati felici, là”.
Infine, diversamente dall'Overlook Hotel, il Grand Budapest non è un
luogo simbolico, né una metafora filosofica dell'esistenza, bensì il posto raffinato
ed elegante dove si può avere la fortuna di trascorrere una stagione della vita
bella ed avventurosa, e che, forse, insieme ai libri, ai ritratti, ai documenti
con il nostro nome, ai vecchi giornali, alle carte d'identità con le
indicazioni sbagliate, ai biglietti del guardaroba, alle foto in cui siamo
venuti male, sopravviverà alla nostra esistenza quando noi non ci saremo più.
Loredana Di Pietro
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