venerdì 25 gennaio 2013

Tre uomini in barca (per non parlar del cane)

Tre uomini – J., George, Harris – e un cane – Montmorency – discutono (il cane un po' meno, discute, ma obietta assai) su come porre rimedio alla gravosità del vivere quotidiano, alle noie, alle fatiche del lavoro, alle molte malattie che li affliggono. J., voce narrante, è quello con le malattie ipotizzate che si abbandona facilmente alla filosofia e alla visione letteraria del mondo. George è quello che dorme in banca dalle otto alle due, ogni giorno, per lavoro. Harris è il pratico, il rude bevitore di whisky scozzese che non si lascia irretire da nessun pensiero immateriale. Montmorency è un cane un po' carogna e anche un po' vile. 




Le tendenze ipocondriache di un lettore medio si impennano fino a toccare gli apici dell'autoironia mentre si legge di un ammalato di tutto tranne che del gomito della lavandaia, mentre desìderi un buon whisky torbato e un pisolino in contemporaneità, e del formaggio. 

I quattro trepidi eroi decidono, dopo aver scartato gli estenuanti viaggi per mare, che la soluzione ai loro problemi sarà una rilassante gita sul Tamigi di una settimana, un lento scivolare meditabondo lungo la piatta superficie del maestoso fiume, in campeggio. A meno che non piova. 

Tre uomini in barca (per non parlar del cane) di Jerome K. Jerome nasceva nel 1889 come una cosa seria, una guida turistica del Tamigi, ma, via via che l'autore pubblicava a puntate i brevi racconti descrittivi di storia e geografia, la dose di classico humor inglese prendeva il sopravvento fino a diventare il libro che è: una gita sul Tamigi con qualche indicazione geografica (a tal punto che si sarebbe potuto ripercorrere l'itinerario dei protagonisti) e storica e una quantità di gag degne del miglior cabaret colto per cui noi radical chic andiamo in deliquio. 

Dei temi filosofici di interesse universale trattati nel racconto ne riporto solo alcuni: 


  1. il campeggio, il campeggiare, il montare una tenda, il non soffocare schiacciati da una tenda montata male e bagnata; 
  2. lo zio Podger; 
  3. offrirsi di fare i bagagli significa offrirsi di sedersi in poltrona e urlare ordini su come devono essere preparate le valigie; 
  4. non bisogna mai prendere di petto un labirinto di siepi; 
  5. montare un telone da barca non è l'affare semplice che sembrerebbe a dirlo: «[...] quando ci ripenso mi meraviglio ancora che qualcuno sia sopravvissuto per raccontarlo»; 
  6. non devi mai far capire al bollitore che hai voglia di prendere il tè, altrimenti esso non porterà mai a bollore l'acqua che vi hai messo a bollire: «Mettemmo il bollitore sul fornello, a prua, e ce ne andammo a poppa fingendo di ignorarlo e dandoci da fare per sistemare le vettovaglie. È l'unica maniera per indurre un bollitore a portare l'acqua a bollore, sul fiume. Se si accorge che state aspettando con impazienza, non si sognerà mai di mettersi a fischiare. Bisogna andarsene e cominciare a mangiare, come se non si avesse la benché minima intenzione di bere una tazza di tè. Non bisogna nemmeno voltarsi a guardarlo»; 
  7. il dominio dello stomaco sull'intelletto; 
  8. il disprezzo per tutti gli altri gitanti, che notoriamente sono sempre più cretini di noi; 
  9. la querelle cane-gatto non sempre si risolve a favore del primo. 

E poi il Tamigi, le cui icastiche descrizioni poetiche fanno da contrappunto alle avventure tragicomiche dei protagonisti e nelle quali – dal perfetto risultato dissonante, quasi stridente – l'autore trova sfogo per un sentimento poetico tendente all'ampolloso sublime e che immediatamente dopo viene scaraventato nella prosaica e brutale realtà di un improvviso nubifragio, di abiti fradici, di un fuoco che non s'accende, di un rutto. 

La prima volta che ho letto Tre uomini in barca mi sono davvero divertito e un simile divertimento lo provo ogni volta che lo leggo ancora, misto alla rinnovata curiosità per gli espedienti narrativi, le trovate umoristiche, le misere avventure dei quattro. 

Ricordo che una sera ero insieme a un gruppo di amici sul terrazzo di casa e cominciai a leggerne alcuni stralci, così a caso. Piangemmo. Dal ridere.


F. Alessandro Motta

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