venerdì 25 gennaio 2013
Tre uomini in barca (per non parlar del cane)
giovedì 24 gennaio 2013
Quaderno Millimetrato
Sai, l'ultima parte del giorno, trascrivo. Ora ti so
in piccola cornice. Era una compagnia
disordinata il tuo sorriso, madre. Luogo minimo.
Transitorio. Ho difficoltà di mani a trascinarti
qui. Vive così poco l'erba a casa mia. I petali
restano nel bicchiere, la direzione degli occhi,
sui rovi cade. Qui ti vorrei, nome e indirizzo
precisi, equivoci a scansare. Diventa la morte
uno scompartimento d'addii. Una frolla
abitudine senza vita. E del tuo dolore in scena.
Sul divano, io. Te. Le spalle tagliate. Restando
Non sono un poeta né un poesologo e credo che la poesia possa essere di-spiegata soltanto dalla poesia, ché un sapore può essere compreso solo dal senso del gusto. Tuttavia, oggi – e forse solo adesso – vorrei cimentarmi in una lettura personale e non rispondente al vero del Quaderno millimetrato di Dorinda Di Prossimo; per il sentimento immediato di confidenza buona che mi ha suscitato l'autrice non appena incontrata, per la pacificazione che mi ha donato sentirla leggere le sue poesie, per averle lette a mia volta e averne tratto il senso del giorno dopo, quello che torna alla mente come il sentore di qualcosa che ha contato, lasciando un segno o un segnale.
Il quaderno è millimetrato perché il nostro corpo che s'avanza nello spazio del tempo è così prezioso da necessitare esattezza, quella di ogni nostro rifugio che per essere tale deve essere assolutamente definito, delimitato, come le tasche per le mani che sanno dove cominciano, dove finiscono, fin quanto in fondo è consentito immergersi.
Appare, immediata, la vita totale di una donna che vive da sola [o così a me è parso, come un discorso a uno], nella casa dei piccoli gesti quotidiani, la polpa del caffè, la colletta della nicotina, gli orecchini e qualche gioiello della madre, scorci da cui allo sguardo degli occhi rimbalza in eco il ricordo. E di ricordi – ricordi dell'ora, del prima e del prima adesso e qui – dove una donna si specchia e si riflette una bambina avvolta dalla grande vestaglia della madre – ché il freddo dei rifugi è sempre stato il caro prezzo delle minute libertà. E i timori in sospensione nell'atmosfera lattiginosa di un'ora tarda o presta, purché sia l'immobile momento del giorno in cui tutti ancora dormono e lei sussurra e ti racconta senza fronzoli [ma circondata di qualche fronzolo tintinnante] cosa è quell'istante, cosa è il suo corpo adulto, contratto, sensuale di seta del fruscio così flebile che esiste immaginato. E il fastidio per un vicinato omologante e legislatore. E il dialogo franco col padre poeta di presepi e la madre dagli appunti come punture d'ago. E un amore sconfinato, che s'arresta un millimetro prima di finire.
F. Alessandro Motta
mercoledì 23 gennaio 2013
Body Art, Don De Lillo
Titolo originale:
The Body Artist [!]
“So, [ ] beauty remains in the impossibilities of the body”
[Beauty, Einsturzende Neubauten]
improvvisamente il rumore di un corpo che si muove nello spazio, un altro da noi
- era inevitabile, lo sai -
e in un istante di assoluta lucidità una ghiandaia azzurra è lì fuori, mi guarda, guarda me che
sono in questa casa, tutti i gesti che servono e non servono, e io so di esistere perché c’è qualcosa lì fuori che ricambia lo sguardo. ma cosa? «L'antagonista,
ossia “la realtà che ricambia lo sguardo”, non è altro, in
definitiva, che la morte». [Y.Mishima, Sole
e Acciaio]
[...]
tu ora non sei più, ma nella stanza vuota in fondo al corridoio Lui, seduto sul letto
la mia voce, i tuoi gesti, la tua voce - dove sei? - la tua voce
un vocabolario ripescato da un'alluvione
il gonfiore umido di un’amnesia
una radio nella stanza accanto che trasmette un esilio sconfinato
- ed io qui con lui, in ascolto
ma il suo corpo, soprattutto, il suo corpo di uomo-bambino
il suo corpo già dato è lo spazio che lo accoglie dilatandosi
una labilità di presenza fisica che bisognerebbe dargli un nome per tenerlo qui
un nome qualsiasi solo per resistere al disfacimento
catastrofe senza narrazione, qualcosa che viene prima del linguaggio
la parola per chiaro di luna è chiaro di luna
qualcosa che non accade, una stupefazione dispiegata dinanzi all'urlo del mondo
al non-come-se delle cose
che se ti capitasse di cercarlo lungo strade deserte, attraverso campi sterminati di mirtilli, lontano, potresti vederlo capovolto come un occhio prima che la mente intervenga
qualcosa sta succedendo, è successo, succederà
poi succede che qualcosa si rompe e comincio a rispondere al telefono con la sua voce
ora che lui non è più
[...]
ciò che resta è il mio corpo
lo scenario della disfatta, l'estenuante campo di battaglia dove tornano i generali all'alba di ogni sconfitta, una cosa bella e problematica
dopo che ve ne siete andati, ora che il mio corpo è la pellicola, è ciò che resta nel distacco esatto, lento, inesorabile di un adesivo, l’avanzo che opprimo e che mi opprime
e questa è l’arte, forse
tutto ciò che faccio al mio corpo è riduzione e rimozione - tutti i miei gesti meccanici -
è dare narrazione all'esistenza, qualcosa che è l’esistenza stessa, solchi profondi che scandiscono
il prima-adesso-dopo
eliminare i residui organici / rendersi trasparenti / tabula rasa
e l’arte del corpo - ovvero - il corpo dell’artista
il mio.
Riccardo Bolo
in attesa del n. 2 di Capperi!
martedì 22 gennaio 2013
Identità Mutanti
Dalla
piega alla piaga: esseri delle contaminazioni contemporanee
«Come possiamo parlare del corpo? E innanzitutto,
bisogna parlare di un corpo o di molteplici corpi?»
Roland Barthes
Un viaggio nell’arte del corpo estremo che ha come mèta la ridefinizione del concetto di identità. Un viaggio che ha inizio con l’umano e che transita fino alle estreme sponde del postumanesimo. Da Wiener Aktionismus a Marina Abramovic, da Vito Acconci a Gina Pane, il corpo che qui viene messo a nudo, lungi dall’essere mero oggetto di rappresentazione, è esso stesso opera d’arte. Territorio dell’ossessione identitaria, campo di sperimentazione, espressione del limite costantemente superabile e superato.
Quella di Francesca Alfano Miglietti è una scrittura concitata, a tratti vertiginosa. La discesa nelle viscere rimane un’esclusiva degli artisti: l’autrice ne svela gli altari, solleva questioni. Il suo è uno schiudere finestre su vedute da grattacieli altissimi. Dalla Body Art al Post-Human, il lettore è scaraventato su scenari artistici segnati dal desiderio di riappropriazione e d'incorporazione del proprio corpo e del corpo proprio al campo dell'arte.
Dal Korper al Leib.
Dal corpo alla carne.
Da un ripensamento del corpo può muovere un ripensamento dell’(e) identità. Identità sessuale, culturale, etnica. Identità che nell’era del Gestell è anche, inevitabilmente, identità tecnologica. Identità che laddove giunga ad essere percepita come trappola induce all’estremo tentativo di riconcettualizzare l’umano.
FAM ci mostra il corpo degli artisti presentandocelo, a tratti, come una carne, ma senza esaurirne la concettualità. Proprio questa invece potrebbe essere la chiave di volta per passare dalla chiusura anestetizzante del corpo biopolitico alla contaminazione che caratterizza il corpo incarnato che siamo. Solo concependo il corpo come una carne - tessuto connettivo del mondo, nell’accezione di Merleau-Ponty - e muovendosi nello spazio aperto dalla reversibilità del sensibile carnale (quel diastema che è spazio intermedio tra senziente e sentito), l’artista può porsi nella condizione di saldare il suo debito di creatività nei confronti del mondo. Poiché la presenza del mondo è «presenza della sua carne alla mia carne».
Da una metafisica del corpo a un’ontologia del sentire.
Una riflessione - che ad alcuni potrà sembrare un po’ ardita - ci accompagna alla fine di questo viaggio. Mettendo in crisi tutto ciò che per secoli l’ha garantita - ossia i canoni classici della bellezza intesa come unità, coerenza, armonia - l’arte del corpo si pone a denuncia e testimonianza della disarmonia e della frammentarietà che caratterizza il nostro mondo. Al punto che potremmo, accogliendo un suggerimento che sembra darci la stessa autrice, riconoscerle una precisa funzione resistenziale. Non credo di allontanarmi troppo dalle intenzioni di alcuni degli artisti in questione nell’affermare che, per il fatto di riflettere senza concessioni e di riportare alla superficie ciò che si vorrebbe dimenticare o celare, l’arte del corpo estremo riesce - per usare le parole di Adorno - «a far parlare ciò che l’ideologia nasconde» [T.W. Adorno, Note sulla letteratura].
«Lotto contro un’identità unica e unilaterale.
Amo le identità multiple, le identità nomadi»
Orlan
in attesa del n. 2 di Capperi!
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