giovedì 24 novembre 2011

Con che cosa scavavi?

- E con che cosa scavavi?
- Con le mani.

Ecco l'uomo. Eccolo nella sua nudità, privo di strumenti di fronte all'urlo assordante della fiumana, del travolgimento di ogni certezza insita in ogni singolo mattone, uno sopra l'altro a difenderti dal mondo e a ripararti nel nucleo della tua intimità, dove nessuno dovrebbe poter accedere. Eppure ad un tratto lo schiaffo della terra ci raggiunge e ci espone: non più pareti, non più tetti, niente regno.

- E con che cosa scavavi?
- Con le mani.

La mia casa è stata circondata dal fango che poi è argilla e presto si indurirà. Forse dovrei costruire la mia casa con l'argilla, forse tutti dovremmo farlo e, quando le piogge arriveranno (perché ditemi voi se è una novità la pioggia!), la mia casa si scioglierà e scenderà a valle e poi al mare. Così, finita la pioggia, potrò costruirmene una nuova (un po' più discosta dal fiume questa volta).

- E con che cosa scavavi?
- Con le mani.




Perché nessuno è venuto a portarmi aiuto, forse perché - dicono - non me lo sono meritato; perché in questo mondo di fango si applica la meritocrazia solo nel guadagnarsi il diritto alla solidarietà. Perché io vivevo in un'accozzaglia di laterizi, perché la mia casa, il mio vicinato, fa parte di un sottosviluppo che non rappresenta la stratificazione della cultura secolare che invece si intravede in altri luoghi che sì, possono permettersi di annegare senza la colpa di averlo fatto. Ma quella accozzaglia di laterizi mi ha visto nascere e crescere, mi ha offerto con gratuità le opportunità per cui io oggi sono ciò che sono. Quell'accozzaglia di laterizi è il luogo delle mie amarezze e delle mie gioie, dove ritorno e dove permango nonostante tutto, nonostante sarebbe stato più facile fuggire. Forse peggio del fango, di sicuro più secco e bruciante, c'è il fango delle parole dei pontificatori. I responsabili pagheranno, ma gli irresponsabili?

E io scavo con le mani per riprendermi quello che ho perduto, per trascinare un tronco lontano da dove si è incagliato, per cercare di non rompere ciò che posso ancora salvare, di non fare altro male, arrecare ulteriore danno. Scavo con le mani per ricongiungermi con quella terra di cui ho abusato, dimenticandomi che in realtà non si tratta di materia inerte. Scavo con le mani perché è l'unica cosa che posso fare, come me in questo momento che non vedo fango davanti a questo portatile, ma scavo con le mani per trovare e sradicare le parole. La mia città - che ho odiato profondamente - non meritava il trattamento del lebbroso per cui lo scrosciare della pioggia è come il tintinnare dei campanelli. Certo esistono responsabilità e responsabili, ma non dobbiamo perdere il senso della gente, del mio vicino che fino a l'altro ieri curava il suo pezzo di terra con una perizia da amorevole pensionato e che oggi non lo ritrova; di Mao, il gatto randagio che ha perso la sua tana tra le canne; di chi non trova ben altro che un pezzo di terra o un giaciglio.

Esiste la gente prima ancora di tutto e con la gente, le relazioni, la condivisione, il senso dell'umano e del terreno. E, per fortuna, esiste chi si è rimboccato le maniche fin da subito ed è corso a dare il proprio aiuto.

Oggi scaviamo con le nostre mani e domani con quelle stesse mani dovremmo incominciare a riprenderci lo spazio attivo che ci siamo lasciati scivolare tra le dita con troppa noncuranza.

F. Alessandro Motta

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