martedì 26 maggio 2015

Le mappe delle stelle. Il nuovo umanesimo di David Cronenberg

Sono due le mappe delle stelle dell'ultimo film di Cronenberg Maps to the stars (2014): le vediamo, all'inizio e alla fine, accompagnare i titoli di testa e di coda. Bisogna guardarle attentamente per vedere che sono diverse – la prima, virata in blu come una vera carta astronomica, è una cartina stradale della città di Beverly Hills, residenza eletta dell'ultimo Olimpo dell'immaginario popolare contemporaneo – quello delle stelle del cinema; l'altra, raffigurazione cartografica di alcune costellazioni, è quindi una mappa delle stelle vere. Vero e falso accostati, mescolati, confusi fino a non essere più distinguibili: è un tema sotteso a molte opere del regista canadese. Qui però l'impossibilità non riguarda la sola percezione dell'individuo, come già in Crash (1996) o in Spider (2002), ritratti della devianza e della follia, bensì quella di un'intera società: che nelle intenzioni di Cronenberg non è poi così diversa dalla nostra.

Ambientato nella cittadina californiana in cui i turisti, armati di mappa, vanno a caccia di case di celebrità cinematografiche, il film racconta un'intricata e nerissima vicenda familiare, i cui personaggi e situazioni sembrerebbero quelli ben collaudati della satira up-to-date, la hollywood babilonia dei rotocalchi: c'è Stafford Weiss, psichiatra-santone che si fa pubblicità attraverso spot-sermoni degni del più bieco venditore televisivo; le sue clienti sono le attrici frustrate e/o depresse, alle quali somministra terapie fatte di massaggi, mantra ed ululati vari; c'è suo figlio Benji, tredicenne attore di commedie adolescenziali, scafatissimo e assetato di successo, già in crisi per storie di droga, e la moglie Christine agente rampante del figlio; c'è la sua cliente Havana, attrice non più giovane, che insegue disperatamente sogni di gloria nel desiderio di emulare la madre morta, vera diva del cinema, e che parla degli abusi sessuali subiti da bambina nei talk show e va a conoscere il Dalai Lama; c'è la figlia di lui, Agatha, che torna dopo sette anni a rivedere la famiglia, e porta cicatrici profonde nel corpo e nell'anima: racconta di aver conosciuto Carrie Fisher (la principessa Leila di Guerre Stellari, 1977) su twitter e di aver stretto amicizia con lei forte di una comune esperienza, poiché sono entrambe doppia diagnosi, termine con il quale si indica la compresenza di un disturbo psichico e di una dipendenza da sostanze. Follia e droga, a segnare un destino comune, e d'altra parte tutti i personaggi principali ne hanno un po' dell'una o dell'altra, in un contesto che assimila entrambe alla “normalità” - per la follia ci sono le cure, medicine dai nomi complicati e lo psichiatra-santone, per la droga percorsi più o meno lineari di disintossicazione.

La descrizione della high society hollywoodiana è condotta con piglio satirico, anche sarcastico: la scrittura dei personaggi si affida al tipico, al riconoscibile, per suscitare il disprezzo e lo scherno dello spettatore, ma – rischiosamente, e questo è il pregio del film – ci sono altre notazioni, più sottili, che caratterizzano diversamente quei personaggi rendendoli più umani. Più simili a noi. È una scrittura imperfetta (la sceneggiatura è di Bruce Wagner), che non in tutti i casi decolla rendendo vivo il personaggio, ma laddove riesce, quello che Cronenberg ci porge è davvero uno specchio molto oscuro. Il migliore tra tutti è senz'altro quello di Havana Segrand, servita da una Julianne Moore al meglio delle sue possibilità (premiata al festival di Cannes per questa interpretazione), che riesce a dare vita vera alla sua figurina di attrice frustrata, depressa, invidiosa; allora dietro di lei, riusciamo a intravedere un meccanismo potente, quello di una società bene ordinata, gerarchicamente organizzata, che mira risoluta al successo e al potere – e forse qui rappresentata non è solo la high society hollywoodiana, ma anche la nostra società – dove chi è in basso vorrebbe solo stare in alto, e chi è in alto si tiene ben stretto ciò che ha, e sa che finché rimane in alto niente potrà danneggiarlo. Follia e droga sono solo accidenti: gli unici, veri nemici sono la malattia e la morte.

La morte, fine di tutti i giochi, è la vera nemesi di questo mondo: se il meglio che la vita può offrire è il successo, il denaro, il potere, allora i morti sono i veri perdenti, figure non collocabili che i vivi possono solo rimuovere. E i morti tornano, sotto forma di visioni, a rimproverare ai vivi le loro manchevolezze, come cattive coscienze. Non può esserci pietà, compassione o riflessione, bisogna tirar dritto, andare oltre, dimenticare gli errori e allontanare il pericolo, proteggersi: nessun prezzo è realmente da pagare, nessun destino ci inchioderà a terra, vogliamo essere bambini magici, imago dei dice lo psichiatra-santone citando Jung - ovvero dei noi stessi, e superare magicamente gli ostacoli. È un delirio mistico-psicologico che ci fornisce una possibile chiave interpretativa del film: l'uomo vuol essere dio in terra, realizzare ogni desiderio, assaporare ogni felicità, tornare al giardino dell'Eden negato dal castigo divino; ma per fare ciò, in un cammino a ritroso al di fuori dello spazio e del tempo, deve rinunciare a ciò che la colpa gli ha insegnato, e cioè la consapevolezza, a ciò che attraverso di essa ha guadagnato, e cioè la coscienza. È il tema dostojevskiano del delitto senza castigo. Privato della coscienza e del senso di colpa, l'uomo non sa più guardare a se stesso, specchiarsi, comprendere il mondo: il prezzo di questo falso paradiso in terra è la Libertà, titolo della poesia di Paul Éluard, di cui alcune strofe in ordine sparso riecheggiano per tutto il film, recitate da più personaggi:


Su i miracoli notturni
Sul pan bianco dei miei giorni
Le stagioni fidanzate
Scrivo il tuo nome

Su quaderni di scolaro
Su i miei banchi e gli alberi
Su la sabbia su la neve
Scrivo il tuo nome

Su ogni carne consentita
Su la fronte dei miei amici
Su ogni mano che si tende
Scrivo il tuo nome

Sul vigore ritornato
Sul pericolo svanito
Su l'immemore speranza
Scrivo il tuo nome
E in virtù d'una Parola
Ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamarti

Libertà.

(traduzione di Franco Fortini)


Scambiato dai più per una commedia nera sulla corruzione dello star system hollywoodiano, Maps to the Stars è in realtà è un'opera incentrata sulla perdita della coscienza e del senso di responsabilità nella società contemporanea, perdita che produce decadenza morale, sofferenza fisica e psichica e morte, in una specie di moderna tragedia greca – “un film con “un po' di mitologia dentro”, dice la protagonista Agatha raccontando della sceneggiatura che vorrebbe scrivere, e che in realtà è quella che stiamo guardando. Cronenberg, già con il suo La promessa dell'assassino (Eastern Promises) del 2007 aveva mostrato una svolta nel suo cinema, che rimane sempre compattamente filosofico, ma diversamente orientato; oggetto dell'indagine cinematografica non sono più tanto gli spostamenti della frontiera del lecito attraverso il complesso rapporto tra psiche e soma, tra mente e corpo, quanto gli aspetti meno appariscenti di tali spostamenti nella vita di ognuno di noi. La promessa dell'assassino, Cosmopolis, Maps to the Stars appartengono a questo secondo momento del cinema cronenberghiano, che, nel suo posarsi su oggetti più “quotidiani” mostra di evolvere il suo motivo ispiratore fondamentale, il rapporto dell'uomo con il principio di realtà, le possibili distorsioni di cui questo rapporto è oggetto, i confini dell'etica e della morale.

Loredana Di Pietro

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