Sono due le mappe delle stelle
dell'ultimo film di Cronenberg Maps to the stars (2014): le vediamo,
all'inizio e alla fine, accompagnare i titoli di testa e di coda. Bisogna
guardarle attentamente per vedere che sono diverse – la prima, virata in blu
come una vera carta astronomica, è una cartina stradale della città di Beverly
Hills, residenza eletta dell'ultimo Olimpo dell'immaginario popolare
contemporaneo – quello delle stelle del cinema; l'altra, raffigurazione
cartografica di alcune costellazioni, è quindi una mappa delle stelle vere.
Vero e falso accostati, mescolati, confusi fino a non essere più distinguibili:
è un tema sotteso a molte opere del regista canadese. Qui però l'impossibilità
non riguarda la sola percezione dell'individuo, come già in Crash (1996)
o in Spider (2002), ritratti della devianza e della follia, bensì
quella di un'intera società: che nelle intenzioni di Cronenberg non è poi così
diversa dalla nostra.
Ambientato nella cittadina
californiana in cui i turisti, armati di mappa, vanno a caccia di case di
celebrità cinematografiche, il film racconta un'intricata e nerissima vicenda
familiare, i cui personaggi e situazioni sembrerebbero quelli ben collaudati
della satira up-to-date, la hollywood babilonia dei rotocalchi: c'è
Stafford Weiss, psichiatra-santone che si fa pubblicità attraverso spot-sermoni
degni del più bieco venditore televisivo; le sue clienti sono le attrici
frustrate e/o depresse, alle quali somministra terapie fatte di massaggi,
mantra ed ululati vari; c'è suo figlio Benji, tredicenne attore di commedie
adolescenziali, scafatissimo e assetato di successo, già in crisi per storie di
droga, e la moglie Christine agente rampante del figlio; c'è la sua cliente
Havana, attrice non più giovane, che insegue disperatamente sogni di gloria nel
desiderio di emulare la madre morta, vera diva del cinema, e che parla degli
abusi sessuali subiti da bambina nei talk show e va a conoscere il Dalai Lama;
c'è la figlia di lui, Agatha, che torna dopo sette anni a rivedere la famiglia,
e porta cicatrici profonde nel corpo e nell'anima: racconta di aver conosciuto
Carrie Fisher (la principessa Leila di Guerre Stellari, 1977) su twitter
e di aver stretto amicizia con lei forte di una comune esperienza, poiché sono
entrambe doppia diagnosi, termine con il quale si indica la compresenza
di un disturbo psichico e di una dipendenza da sostanze. Follia e droga, a
segnare un destino comune, e d'altra parte tutti i personaggi principali ne
hanno un po' dell'una o dell'altra, in un contesto che assimila entrambe alla
“normalità” - per la follia ci sono le cure, medicine dai nomi complicati e lo
psichiatra-santone, per la droga percorsi più o meno lineari di
disintossicazione.
La descrizione della high society
hollywoodiana è condotta con piglio satirico, anche sarcastico: la scrittura
dei personaggi si affida al tipico, al riconoscibile, per suscitare il
disprezzo e lo scherno dello spettatore, ma – rischiosamente, e questo è il
pregio del film – ci sono altre notazioni, più sottili, che caratterizzano
diversamente quei personaggi rendendoli più umani. Più simili a noi. È una scrittura imperfetta (la sceneggiatura è di Bruce Wagner), che non in tutti
i casi decolla rendendo vivo il personaggio, ma laddove riesce, quello che
Cronenberg ci porge è davvero uno specchio molto oscuro. Il migliore tra tutti
è senz'altro quello di Havana Segrand, servita da una Julianne Moore al meglio
delle sue possibilità (premiata al festival di Cannes per questa
interpretazione), che riesce a dare vita vera alla sua figurina di attrice
frustrata, depressa, invidiosa; allora dietro di lei, riusciamo a intravedere
un meccanismo potente, quello di una società bene ordinata, gerarchicamente
organizzata, che mira risoluta al successo e al potere – e forse qui
rappresentata non è solo la high society hollywoodiana, ma anche la nostra
società – dove chi è in basso vorrebbe solo stare in alto, e chi è in alto
si tiene ben stretto ciò che ha, e sa che finché rimane in alto niente potrà
danneggiarlo. Follia e droga sono solo accidenti: gli unici, veri nemici sono
la malattia e la morte.
La morte, fine di tutti i giochi, è
la vera nemesi di questo mondo: se il meglio che la vita può offrire è il
successo, il denaro, il potere, allora i morti sono i veri perdenti, figure non
collocabili che i vivi possono solo rimuovere. E i morti tornano, sotto forma
di visioni, a rimproverare ai vivi le loro manchevolezze, come cattive
coscienze. Non può esserci pietà, compassione o riflessione, bisogna tirar
dritto, andare oltre, dimenticare gli errori e allontanare il pericolo,
proteggersi: nessun prezzo è realmente da pagare, nessun destino ci inchioderà
a terra, vogliamo essere bambini magici, imago dei dice lo
psichiatra-santone citando Jung - ovvero dei noi stessi, e superare magicamente
gli ostacoli. È un delirio mistico-psicologico che ci fornisce una possibile
chiave interpretativa del film: l'uomo vuol essere dio in terra, realizzare
ogni desiderio, assaporare ogni felicità, tornare al giardino dell'Eden negato
dal castigo divino; ma per fare ciò, in un cammino a ritroso al di fuori dello
spazio e del tempo, deve rinunciare a ciò che la colpa gli ha insegnato, e cioè
la consapevolezza, a ciò che attraverso di essa ha guadagnato, e cioè la
coscienza. È il tema dostojevskiano del delitto senza castigo. Privato della
coscienza e del senso di colpa, l'uomo non sa più guardare a se stesso,
specchiarsi, comprendere il mondo: il prezzo di questo falso paradiso in terra
è la Libertà, titolo della poesia di Paul Éluard, di cui alcune strofe
in ordine sparso riecheggiano per tutto il film, recitate da più personaggi:
Su
i miracoli notturni
Sul
pan bianco dei miei giorni
Le
stagioni fidanzate
Scrivo
il tuo nome
Su
quaderni di scolaro
Su
i miei banchi e gli alberi
Su
la sabbia su la neve
Scrivo
il tuo nome
Su
ogni carne consentita
Su
la fronte dei miei amici
Su
ogni mano che si tende
Scrivo
il tuo nome
Sul
vigore ritornato
Sul
pericolo svanito
Su
l'immemore speranza
Scrivo
il tuo nome
E
in virtù d'una Parola
Ricomincio
la mia vita
Sono
nato per conoscerti
Per
chiamarti
Libertà.
(traduzione
di Franco Fortini)
Scambiato dai più per una commedia
nera sulla corruzione dello star system hollywoodiano, Maps to the Stars
è in realtà è un'opera incentrata sulla perdita della coscienza e del senso di
responsabilità nella società contemporanea, perdita che produce decadenza morale,
sofferenza fisica e psichica e morte, in una specie di moderna tragedia greca –
“un film con “un po' di mitologia dentro”, dice la protagonista Agatha
raccontando della sceneggiatura che vorrebbe scrivere, e che in realtà è quella
che stiamo guardando. Cronenberg, già con il suo La promessa dell'assassino
(Eastern Promises) del 2007 aveva mostrato una svolta nel suo cinema,
che rimane sempre compattamente filosofico, ma diversamente orientato; oggetto
dell'indagine cinematografica non sono più tanto gli spostamenti della
frontiera del lecito attraverso il complesso rapporto tra psiche e soma, tra
mente e corpo, quanto gli aspetti meno appariscenti di tali spostamenti nella
vita di ognuno di noi. La promessa dell'assassino, Cosmopolis, Maps
to the Stars appartengono a questo secondo momento del cinema
cronenberghiano, che, nel suo posarsi su oggetti più “quotidiani” mostra di
evolvere il suo motivo ispiratore fondamentale, il rapporto dell'uomo con il
principio di realtà, le possibili distorsioni di cui questo rapporto è oggetto,
i confini dell'etica e della morale.
Loredana Di Pietro
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