martedì 27 settembre 2011

Dal "know how" al "noau"

Come gruppo di soggetti limitanei noi italiani siamo sempre stati abili nell’arte prodigiosa della rielaborazione a nostro uso culturale delle influenze delle decine di conquistatori che hanno attraversato il territorio che abitiamo. Una tale capacità di riordino dell’estraneo in una forma originale e a noi rispondente ci ha resi una masnada di guitti, saltimbanchi, truffaldini, equilibristi e geni. Alla stregua di quei fermenti che trasformano il latte in yogurt, abbiamo dato corpo a prodotti in cui si riconosceva e l’origine derivata e la genuina autonomia ontologica.

Lo abbiamo fatto. 


Oggi, però, non lo facciamo più. Abbiamo abdicato alle nostre competenze di trasformazione e produzione per un asservimento culturale a un modello che domina – purtroppo – anche in questa fase in cui si sta inesorabilmente sbriciolando. Il monopensiero claudicante ha instillato nelle nostre menti da risorse umane concetti che non ci erano propri a tal punto da non possedere neppure le parole per denotarli. Uno di questi pensieri rivoluzionari è quello di know how, il saper fare. Ora, non è che noi non sapessimo fare, ma siamo stati convinti forzosamente che il nostro saper fare fosse non rispondente ai bisogni della contemporaneità e che il saper fare fosse sufficiente di per sé, mentre al nostro saper fare (che era solo strumentale, cioè dell’uso di strumenti) preesisteva necessariamente il giudizio sul da farsi, cosa ben più importante. Così ci hanno sottratto il saper fare, dopo aver soppresso il giudizio sul da farsi, e lo hanno rielaborato in chiave produttiva: ne è risultato il know how e ce lo hanno dato in pasto, come fossimo polli da batteria costretti in gabbie concettuali restrittive, incapacitati a volgere lo sguardo sull’altrove rispetto alla mangiatoia e al cibo preconcetto.
Certo, qualcuno provò a trasformare il know how in noau, un timido tentativo di adattare la ricetta ai nostri ingredienti e al nostro gusto, ma il tentativo durò poco e la ricetta estera mantenne e mantiene ancora oggi il copyright sulle nostre competenze. Perché anche se tu sai fare le cose in modo non rispondente al know how, quelle cose tu non le sai fare, punto.
Quando parlo di menti da risorse umane mi riferisco ai prodotti inconsapevoli del pensiero che ha sdoganato come positiva l’idea che l’uomo possa essere una risorsa: ora, non è negativo che le risorse dell’uomo possano essere una risorsa, lo è che la risorsa sia rappresentata dall’uomo stesso. E tutto ciò che gira intorno alle risorse umane fa chiaramente intendere verso quale interpretazione sia orientato il pensiero produttivo contemporaneo. L’uomo è un giacimento petrolifero inesauribile che deve essere selezionato, testato, formato, manipolato, indirizzato, scremato, inquadrato nelle logiche aziendali, nei vestiti aziendali, negli alienanti riti quotidiani di nuova generazione utili a creare gruppo, quello stesso gruppo in cui la personalità viene assorbita e nullificata. Il parallelismo con la figura dell’operaio nelle rivoluzioni industriali è immediato, ma esistono delle differenze che andrebbero affrontate in sede più congeniale.
In un simile panorama, certamente il know how non è il saper fare, né il noau; è, invece, la strumentazione che l’area umanistica si è data per continuare disperatamente a sopravvivere, strumentazione il cui primo assunto fondamentale è “l’area umanistica per sopravvivere deve vestire il camuffamento della scienza, poiché il futuro è il regno della tecnica e il pensiero è solo una zavorra al velocissimo procedere spedito e snello della tecnologia”. Per resistere, così, i neo-umanisti sono diventati esperti nei settori di annullamento dell’umanesimo, il serpente che si morde la coda senza produrre alcun uroboro, ma arrivando a divorarsi interamente senza speranza di un rinnovamento.
Nel momento in cui una esperta in risorse umane, di formazione umanistica, afferma che una laurea umanistica è una laurea debole e perciò ci si deve rafforzare attraverso costosi master che ti insegnino il marketing o la gestione scientifica delle risorse umane, il mondo sta finendo.

F. Alessandro Motta

3 commenti:

  1. Grazie Ossidi di Ferro, grazie per aver riacceso in noi giovani lettori, ormai stanchi dell'invisibile che ci opprime,quella piccola luce di speranza, promessa futura di un ritorno alla vita.
    A volte la natura nel suo incessante percorrere ci sorprende come un abbaglio luminoso, sottile e al tempo stesso impetuoso, arrogante e prepotente. E' la natura con il suo potere distruttivo che, indifferente agli uomini, percorre vie impensate, o almeno non calcolate dall'uomo, e imbocca strade turbolente, cancellando in un attimo le fatiche umane come fossero bolle di sapone inconsistenti.
    Ma è quella stessa forza distruttrice che innalzando come una lirica la sua voce stridula, richiama all'ordine una comunità di viventi. Non è tutto perso, anzi: è forse solo grazie e per mezzo del caos che l'apollineo vivente emerge con tutta la sua imponenza.
    La turbolenza di quel fiume inesorabile porta con sè una fecondità di pensieri che si riappropriano dello spazio cittadino e con un gesto violento grida ai giovani: "svegliatevi! E' il vostro tempo!".
    Grazie Ossidi di Ferro perchè hai contribuito a farci dire un'altra volta: Tutto è possibile! Grazie perchè hai concesso uno spazio seppur piccolo ma fruttuoso, di elaborazione di nuove potenzialità. Grazie perchè in un tempo di Titani stai costruendo sicuramente con fatica una via nuova, in direzione opposta al nulla implacabile turbinio delle nostre esistenze.
    Non è un caso che la voce del fiume si sia rivolta ai giovani affinchè la ascoltino, non è un caso che sia arrivata nel momento in cui il sistema capitalistico è in crisi.
    Il progresso non è infinito se non in una concezione lineare del tempo vissuta da chi non esercita il pensiero, da chi ha preteso di costruire una torre di babele nel deserto. Tuttavia quando i tempi della natura incontrano la storia dell'uomo, lì e solo in quel momento, avviene un passaggio: o verso la perdizione totale oppure nella direzione di un andare oltre il muro del tempo della tecnica, oltre quel niente con il quale siamo entrati in totale confidenza e che pietrifica l'azione e il pensiero.
    Da quell'incontro a volte irrimediabilmente distruttivo emerge incalzante la domanda: è possibile ricreare un nuovo orizzonte in cui finalmente tutti si riconoscono?
    Risale con forza dal profondo un sentimento di cambiamento che scuote le coscienze turbate, è il rinnovato desiderio di "essere" dei giovani che funge da pungolo ai pensieri e che l'acqua del fiume, elemento tanto antico quanto nuovo, ha riportato in auge ridonando fiducia nel futuro.
    La nostra speranza è quella che con lo scorrere del fiume siano andati via non pezzi di montagna,non solo parti di storia di vita familiari, non tetti e cemento, ma il fango del sistema politico e umano che alimentatosi nel tempo grazie all'ignoranza e alla sopraffazione dell'uno sull'altro, era divenuto talmente enorme da sembrare ingombrante alla natura stessa.
    Anche la natura è stanca dell'ingordigia umana: ogni giorno esempi di distruzione avvengono in tutti gli angoli del pianeta in un modo o nell'altro, e con un'intensità non conosciuta prima.
    Non si tratta solo di accadimenti fisici: siamo di fronte ad un movimento tellurico che assume i toni misticheggianti ed ascetici di una minaccia in grado di fare del globo un immane deserto, e della quale ancora non siamo a conoscenza.
    (segue)…

    RispondiElimina
  2. ...
    In questo momento di passaggio la terra ci offre dei segnali negativi e al tempo stesso importanti per un sostanziale cambiamento di rotta. Le generazioni precedenti sono cieche di fronte a tale turbamento: l'indifferenza con la quale gli amministratori della cosa pubblica ci accolgono palesa la fragilità a cui sono sottoposti i tradizionali baluardi di certezza ormai privi di ogni fondamento teorico. Incapaci di soccorrerci e immersi nell'egoismo più puro a cui sono abituati, si arrestano e rimangono immobili, incapaci di agire e dire di fronte allo stupore provato da chi come noi vive i non luoghi della precarietà.
    La precarietà però deve essere solo materiale non mentale. Non possiamo più permettere a chi ha già sprecato tutte le energie utili al bene comune di continuare la propria opera indisturbato. Dobbiamo reagire, e le parole e le espressioni sono più efficaci di ogni altra arma. Ma c’è un altro mezzo ancora più efficace del pensiero: è la fiducia in noi stessi e l’ottimismo verso ciò che sembra perduto, ma perduto non lo è ancora. Il sentimento del futuro è ciò che il sistema ridondante vuole distrutto, ma ciò non può e non deve più accadere. Creare e ricreare ambienti nuovi, rimuovere il fango di questa antica civiltà è ciò che più disorienta la fame di dominio che ci vuole inutili e ignoranti.
    In "Al muro del tempo" già Ernst Junger aveva sottolineato che il senso della fine del mondo, la paura di una catastrofe cosmica, è un "segno dell'esser giunti a un punto tale in cui è il destino della terra in quanto tale a essere messo in questione, e quanto più una mente è limitata e resa cieca dalle mere cifre, tanto più la catastrofe le apparirà priva di senso".
    Come lui stesso però afferma: " Alla catastrofe però sono assegnati un posto e un ruolo ben precisi nel mondo. Essa segnala non solamente che l'ordine è stato turbato, ma altresì che esso vuole essere ristabilito".
    L'osservazione degli accadimenti del mondo e la ricerca di fessure dalle quali far uscire nuova linfa, è compito di chi ancora fa buon uso dell’intelletto e con senso di responsabilità solleva nuove questioni tentando di risolverle.
    Luisa Bonesio scrive: "felice è colui che sa incamminarsi per altre, più ardite, vie", il suo scopo è l'essenziale, il mezzo il pensiero.
    Grazie ancora.
    Grasso Elena

    RispondiElimina
  3. Cara Elena,
    molte grazie per le tue riflessioni, che ho apprezzato molto.
    Suggerirò alla redazione di Capperi! di inserire il tuo pezzo nella rubrica "specchi in frantumi ovvero frammenti riflessivi" del numero speciale della rivista a cui stiamo lavorando.
    Un sincero abbraccio

    Alessandro

    RispondiElimina