martedì 8 febbraio 2011

Martirio e supplizio

Nel momento del martirio si ha a che fare con un corpo che vive.

Uno degli elementi che avvicina i corpi viventi tra essi e li parifica è la condivisione del dolore fisico: uomini, donne, bambini, cani, cavalli e altri siamo accomunati dalla percezione del dolore che è una delle maggiori manifestazioni sensibili che un individuo può provare. E questo il suppliziante o il torturatore lo sa bene.
Nel martirio dunque concorrono almeno due corpi identici nel dolore: il martirizzato sa perfettamente che il torturatore è ben consapevole del dolore che gli sta arrecando e, proprio per questo motivo, non vede via di fuga e nella maggior parte dei casi si arrende; il torturatore sa perfettamente che il torturato soffre e sta per cedere proprio per quella consapevolezza.

Ma i corpi sono differenziati per almeno due motivi: la differenza di potere e l'utilizzo di strumenti.
Entrambi gli elementi sono tra loro correlati in quanto utilizzo strumenti poiché ho il potere di farlo e questo potere mi viene da una autorità politica che me lo concede e da una autorità materiale che è data dall'uso degli strumenti di tortura. Inoltre lo strumento distanzia i corpi e, proprio in questo caso, li differenzia: l'uno tiene la tenaglia, l'altro sente le proprie carni tenagliate.
Lo strumento separa, produce maggiore dolore, giustifica e deresponsabilizza. Crea spazio tra la mano del torturatore e la carne del torturato, moltiplica la forza inflittiva del boia, giustifica il dolore come qualcosa di arrecato dallo strumento e, così, priva di responsabilità colui che lo maneggia.
Interviene a questo punto il motivo della volontà che muove il boia o che sostanzia il suppliziato: il boia che già adopera uno strumento per allontanarsi dal suo oggetto è a sua volta uno strumento di un potere a lui sovraordinato, che è il potere del governante o del signore. Egli diviene, così, lo strumento che mantiene l'integrità della legge su cui si fonda il potere stesso del sovrano. Storicamente, infatti, la pena capitale aveva proprio la funzione di consumare l'immane vendetta del principe sul corpo di chi aveva osato contravvenire alle sue leggi mettendo in discussione il suo imperio. (questo elemento di vendetta del potere si è mantenuto fino ai giorni nostri, pur nella modifica dei modi di operarla).
La deresposabilizzazione è, così, duplice da parte dei somministratori della pena: il sovrano ordina, ma non esegue; il boia esegue, ma non decide l'atto.
E poi c'è la volontà del suppliziato che, anche in questo caso, è di due livelli: a livello base troviamo quella del corpo che riceve il supplizio e che lo riceve a causa della sua volontà di restare fermo nell'errore o nella giustezza dei propri convincimenti; a livello superiore troviamo la controparte del signore col boia, e cioè, per i mistici, Dio. La Volontà superiore che sostiene la volontà del suo testimone di fede.
È bene ricordare che, nella quasi totalità dei mistici, che abbiano ricevuto il martirio o meno, è presente come leit motiv un disinvestimento sul corpo a vantaggio dello spirito; pur di salvare l'anima si può mettere in gioco il suo simulacro nelle varie gradazioni che passano dall'astensione del cibo alla privazione di ogni conforto al sacrificio estremo.
Tornando allo strumento, un discorso più approfondito possiamo farlo per la freccia quale strumento del martirio.
La freccia estremizza le distanze ma, con l'atto del mirare, aumenta la partecipazione dell'arciere che si concentra su un punto e la sua intensionalità corre insieme al dardo scoccato. Tuttavia resta sempre un fattore di distanza, fattore qui maggiorato, che conforta l'animo del suppliziante già quando ancora la freccia è in volo. Non sono io a produrre dolore o morte, è qualcosa che non mi appartiene più una volta che l'ho scoccata e che se Dio volesse potrebbe deviare dalla sua traiettoria.
La freccia, inoltre, come la spada, ha una funzione penetrativa nella carne del suppliziato; è un duplice atto sadico di caccia e dominio: come caccia, stabilisce che ad un certo punto della vita, un uomo possa vedersi concesso il divertimento e il piacere di essere legittimato a fare ciò che normalmente non gli verrebbe permesso e cioè uccidere un altro uomo. Come dominio, l'atto del poter disporre liberamente di un corpo si caratterizza giocoforza come la simbolizzazione e la drammatizzazione di un atto sessuale in cui i ruoli sono ben definiti tra chi domina e agisce la penetrazione e chi è passivo e la subisce nell'ottica, ovviamente, di un pensiero patriarcale. La freccia è il feticcio del fallo, così come la spada (l'uomo che uccide la donna come psicodramma della penetrazione: i casi di femminicidio a cui assistiamo nella società contemporanea rappresentano, per certi versi, la forma definitiva e definitoria dell'abuso maschile su un corpo femminile, l'atto ultimo di azione di potere di un corpo su un corpo. Non è un caso che nella maggior parte delle uccisioni di donne, l'assassino sia un ex marito o compagno o un uomo rifiutato che agisce sul corpo della donna l'atto ultimativo di penetrazione attraverso il ricorso all'arma bianca).
Nel momento del martirio si ha a che fare con un corpo e non con un santo. La santità sopraggiunge in un secondo momento, dato che un uomo viene detto tale.
Ci possono essere motivazioni alla santificazione e una di queste motivazioni è che l'uomo o la donna in questione abbia subito il supplizio a causa della fermezza delle proprie convinzioni che il suppliziante non è riuscito a scalfire neppure passandoli a fil di spada (o a punta di freccia).
Tuttavia se ci fermiamo a questa unica giustificazione di santità possiamo notare come anche altri individui possano essere definiti santi pur non essendolo: le guaritrici e levatrici del medioevo che vennero torturate e arse vive a causa delle loro convinzioni sarebbero state delle possibili sante, senonché a santificarle avrebbe dovuto essere la stessa Chiesa che le ha condannate.
La santità è, dunque, riconosciuta soltanto a chi pone tra il proprio pensiero e quello dominante il proprio corpo come ultimo baluardo, come se il corpo potesse ergersi a difensore del pensiero, di un pensiero comunque riconducibile a quello cristiano/cattolico.
A pensar così facciamo un torto al corpo. Lo facciamo perché lo priviamo della possibilità di essere esso stesso pensiero e di rendere ancora più titanico il suo martirio: è il corpo che salva se stesso dimostrando che neppure la paura del proprio annientamento può smuoverlo da una certa convizione o condotta e che colui che agisce l'annientemento è in definitiva perdente, poiché non è riuscito a piegarlo ed è stato cotretto ad espungerlo dalla vita nel modo più doloroso e vendicativo possibile.
In conclusione, da un punto di vista meramente pratico, il supplizio del santo non è differente dal supplizio del condannato a morte, poiché anche il primo è una condanna a morte seppur per motivi ideologici. Il Potere ha un solo modo di parlare, un unico modo di far rispettare le proprie leggi e cioè l'applicazione della pena nelle varie gradazioni ed è del tutto indifferente alla moralità del condannato, non importa che sia un assassino o un santo.
La martirizzazione, nel suo aspetto di immolazione sull'altare di un Dio, è attribuita successivamente da chi fa parte del riferimento culturale del martirizzato, della sua comunità morale, sempre che sia storicamente vittoriosa. Il fatto che si siano avute agiografie di santi martiri e storie di immonde streghe ci fa ben comprendere chi abbia vinto questa partita.
Vorrei ricordare che la pena di morte per la Città del Vaticano non veniva applicata già dal 1967 nel pontificato di Papa Paolo VI, tuttavia fu espunta dalla Legge fondamentale di quello Stato solo il 12 febbraio 2001 ad opera di Papa Giovanni Paolo II. Nel giugno del 2004 l'allora Cardinal Joseph Ratzinger, in una lettera indirizzata all'arcivescovo di Washington e al Presidente della Confederazione Episcopale degli Stati Uniti, affermava che può tuttavia essere consentito [...] far ricorso alla pena di morte.

Senza interpretazioni di parte, invece, ogni atto definitivo contro un corpo non avrebbe alcuna ragione d'essere in un mondo che non neghi i corpi a vantaggio dell'anima o della legge: anima e legge sono i due concetti chiave attraverso cui il Potere nelle sue forme ha continuato nel tempo e fino ai nostri giorni a riprodursi nelle stesse dinamiche oppressorie.
San Sebastiano è vittima di questo doppio potere: il suo corpo è stato massacrato, mutilato e gettato nelle fogne per volere della legge di Roma e il suo corpo è stato esposto quale massima espressione di sacrificio in favore dell'anima.


F. Alessandro Motta

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