martedì 31 gennaio 2012

Idealittà

È difficile che un qualunque pensatore a un certo punto della propria riflessione sull'umano non si imbatta nella costruzione mentale di una città ideale. Lo è, difficile, perché è altrettanto improbabile che un uomo o una donna si pensino al di fuori di un contesto urbano - o agricolo, insomma al di fuori di un contesto comunitario.
Più si pensa all'uomo (vi prego, mie adorate femministe, lasciatemi usare "uomo" come sinonimo di "umanità" altrimenti rischio di soccombere sotto i macigni del politically correct!), più lo si vorrebbe in un certo modo e più si delinea l'ambiente che lo rispecchia fedelmente o che gli permette di potersi predicare al meglio delle sue possibilità: una città, un ambiente che non impone restrizioni né barriere architettoniche al singolo che voglia vivere sia come singolo che come individuo in relazione ad altri individui. Una città, insomma, che rappresenti il microcosmo-umano e allo stesso tempo il macrocosmo-stato in un gioco di specchi non deformanti che riconducano l'uomo nella città e la città nell'uomo.


Nei secoli l'importanza della città è stata direttamente proporzionale all'importanza dell'uomo: dalle città stato greche in cui le prime forme (incomplete) di democrazia ponevano il soggetto e la città al centro degli interessi di tutti, al bisogno di ordine e regolarità del cittadino romano che trovava piena espressione nella linearità dei nuovi insediamenti, al lungo periodo in cui la città era il luogo del culto e del potere indifferente ai singoli.
È col Rinascimento che il soggetto ritrova il ruolo principale da cui era stato scalzato durante il Medioevo e ridiventa il fulcro del mondo e riprende a pensare alla città in cui sarebbe bello vivere, con-vivere e fare politica.
Vorrei soffermarmi sulla famosa opera di un anonimo fiorentino (secondo alcuni si tratterebbe di Luciano Laurana) che vedete qui accanto e che raffigura la perfezione dell'idea di città occidentale: grandi strade lineari, grandi piazze, impossibilità di perdersi nei meandri di vicoli e vicoletti, lindore, ariosità, rigore, insomma una città che rappresenti il rigore del ragionamento umano. Dov'è l'uomo in questa città? Non compare, perché forse rovinerebbe quella perfezione. Tuttavia il piccolo spiraglio di speranza è lì, nello spiraglio della porta semiaperta della struttura centrale: qualcuno l'avrà pure aperta, quindi c'è vita. Che poi non dovremmo restare sorpresi:

vedete, per caso, qualcuno in queste foto d'interni? No di certo! È come se gli esseri umani non appartenessero alla bellezza, o - quanto meno - all'armonia.
È, forse, un tale disprezzo per l'uomo - o se non proprio disprezzo almeno mancanza di fiducia - che spinge i creatori di mondi perfetti a eliminarli dalla scena? 
E se queste città, queste case (che non sono altro se non il tassello atomico di una città) fossero state pensate come gabbie dorate? Di certo non sono state create da molti, ma da uno (l'artista, il designer); e uno non è un individuo se non si rapporta al due, al tre; resta uno. Quindi le città ideali, come le case ideali, sono pensate da uno e possono essere pensate così proprio perché non turbati da altre suggestioni? Se io dovessi costruire una città direi: "qui ci mettiamo una bella fontana perché credo che sia il luogo migliore, poi qua ci mettiamo una strada lunga e larga, un viale principale, bello arioso, dirimpetto alla piazza di lato all'Università e al Laicheo (sì, la Chiesa del mio mondo senza religione)". E sarebbe perfetta. Ma non sarebbe una città, perché verrebbe a mancare il dato umano e partecipativo, verrebbe a mancare la vita.
Allora forse è più rispondente al vero la casbah d'alger, perché appare come il brulicare di un termitaio, come gli intrecci delle connessioni sinaptiche che stanno alla base della creatività, del pensiero; dove il concetto di rete di relazioni raggiunge il parossismo nell'estremo fondersi, immergersi con e nell'altro.
La città non deve avere la lattiginosa fissità di un museo, dato che non è un museo; e se la partecipazione attiva alla cittadinanza produce un dedalo di stradine impercorribili, significa che quella comunità urbana ha preferito che nei vicoli delle loro case non potessero passare i SUV. 
Quest'immagine mi riporta alla mente la storia di San Berillo, un quartiere di Catania che ormai non esiste più se non nel ricordo pieno di nostalgia e rammarico di alcuni suoi cittadini. San Berillo era al centro del centro di Catania ed era anch'esso un dedalo di stradine e viuzze, di giardini dentro le case e case dentro i giardini (a tal proposito vi consiglio vivamente "Ballata per San Berillo" di e con Turi Zinna, regia di Elio Gimbo), luogo in cui esisteva una rinomata imprenditoria artigiana che riforniva quasi tutta la Sicilia (calzolai, ebanisti, tornitori, barbieri-chirurghi, panificatori e molto altro) e che animava gli scambi commerciali del grande mercato di Piazza Carlo Alberto. San Berillo è stata rasa al suolo negli anni '50-60 del '900 perché portava in sé la colpa di deturpare con le sue fattezze popolari e produttive le centrali Via Etnea e Piazza Stesicoro e perché i giovani de La Cumacca, dirigenti DC e padroni della città fino agli anni '90 avrebbero dovuto trarne enormi guadagni. Trentamila catanesi vennero deportati da San Berillo a San Berillo Nuova e nessuna di quelle fiorenti attività commerciali sopravvisse, né i ricchi rapporti di vicinato, co-abitazione.

Quella di San Berillo è una storia che merita d'essere raccontata più approfonditamente, per cui non proseguo. 

La città ideale, per trarre almeno uno straccio di conclusioni non-dimostrative, è prodotta da un singolo ed è perfetta perché non è pensata per essere vissuta, né modificata. Risente del pregiudizio - tanto caro ai filosofi - che la mente umana sia ottima, compiuta, ordinata, asettica, mentre nella realtà siamo un po' meno rigorosi e un po' più cialtroni e allo stesso tempo sociali. Aveva voglia Kant a dire che l'uomo è un animale sociale insocievole, forse lo era lui (che, diciamolo, era anche un po' triste).
La città partecipata è una città che non può essere immaginata, ma che deve essere attivamente costruita da chi la abita, nel rispetto dell'altro da sé e quindi nelle regole del buon vicinato, dove la prossimità sia un elemento di ricchezza e dove tutti possano essere messi in grado di esporre il loro punto di vista, che forse è quello dalla propria finestra.

F. Alessandro Motta


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