Vivere in una terra di mezzo ci educa alla consapevolezza del completamente diverso; è un abito mentale insito nei nostri cromosomi, nella memoria dei nostri corpi, in quanto abitanti del centro di un universo compiuto, culturalmente autosufficiente e rigoglioso. Qui il completamente diverso diventa anche un diverso che completa, poiché posso riconoscermi nell’altro da me elevando a pietra di paragone proprio ciò che ci diversifica, poiché ciò che non sono apre ai miei occhi infiniti orizzonti di ciò che sarei potuto essere, che potrò divenire o, perfino, ciò che un tempo sono stato.
Il Mediterraneo, che è fatto dalle identità delle donne e degli uomini che si affacciano su questo mare isolato, racchiuso, quasi coccolato dall’abbraccio delle terre è, in un in potenza sempiterno, il luogo eletto per questo interscambio di vite che fluiscono come le correnti che lo muovono, sotto la patina del salato.
Alcuni, poi, lo raccontano e, raccontandolo, lo modificano, lo impreziosiscono o, peggio, lo deformano. È vero che i nostri occhi lavorano come caleidoscopi rifrangenti, e alle volte disegnano meravigliose geometrie colorate e certe altre terribili accozzaglie di toni scuri.
Qual è il modo di approcciarsi dei media al racconto del Mediterraneo e dei popoli che lo abitano? Quale interesse è sotteso a questo o quel modo di mediare una realtà?
Raccontare è un lavoraccio; non sai mai se ciò che dici corrisponde al vero o se stai seguendo le tue allucinazioni fisiche o ideologiche. Eppure è allo stesso tempo necessario, poiché l’immaginario collettivo su cui si fonda il reale ha bisogno di racconti per continuare a permeare la meravigliosa struttura scenica che ci siamo costruiti come habitat. E il Mediterraneo è un meraviglioso teatro pieno di quinte.F. Alessandro Motta
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