Plic stocastici sopra le nostre teste, case, strade.
Plic che si insinuano nelle fessure delle rocce, tra le radici emerse di ex boschi, tra le crepe dei muri delle case, antiche o vecchie o nuove.
Rigagnoli silenti o sferzate ventose che s’abbattono contro le facce e le facciate e lavano, certe volte, e corrodono, altre.
Acquazzone, pioggerella, lieve umidore, precipitazioni torrentizie, schiaffo naturale, ciclone, condizione definitiva e definitoria.
La pioggia, inzuppa villani, per malizia o per mera gravità, impregna ogni luogo di sé e lo ammorbidisce, sfaldando le pietre, illanguidendo i legami delle cose che, d’un tratto, si abbandonano alla caducità propria dei mortali e gli immobili si fanno mobili e, derive fangose discendono di una natura terribile e placida, vorticosa e placida, impetuosa e placida, rumorosa e placida; ché la Natura, dal suo punto di vista, non si cura.
E l’acqua che esonda, tracima, trabocca, rigurgita, vomita, esulta, si libera, non defluisce secondo le vie naturali – che noi abbiamo interrato e su cui abbiamo costruito palazzi – ma permane: nelle case, nelle colture, tra i mattoni che si spezzano, sopra le nostre teste bagnate da un’ineluttabile conseguenza.
Persino la terra s’allarga sotto ai nostri piedi e tenta di ingoiarci, pre-tumularci, poiché di noi s'è proprio scocciata, del nostro brulicare incurante, del nostro ammazzarci per un dominio che poca acqua può far scomparire. In fondo, viviamo incerti sopra un millimetro di spessore.
F. Alessandro Motta
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